L’espressione “fiscal cliff” credo sia ormai entrata nel patrimonio linguistico della maggioranza degli italiani e, tra le varie traduzioni possibili, quella di “baratro fiscale” descrive più icasticamente di cosa si tratta in concreto: pesante aumento delle imposte e contemporanea pesante riduzione della spesa pubblica.

In Italia viene utilizzata un’altra espressione: esercizio provvisorio di bilancio. E’ quanto accade nel caso che non venga approvata entro il 31 dicembre la legge finanziaria, ora detta di stabilità, per cui l’esercizio viene prorogato, fino al limite del 30 aprile, potendo spendere in ogni mese solo un dodicesimo della spesa dell’anno precedente.

Negli Stati Uniti, a meno di un accordo nel Congresso tra Democratici e Repubblicani, dal 1 gennaio partiranno autonomamente tagli alla spesa pubblica federale di circa 108 miliardi di dollari, scadranno una serie di facilitazioni fiscali approvate negli scorsi anni e dovrà essere comunque aumentata l’imposizione fiscale. Questo è uno dei punti di discordia tra i due partiti, in quanto i Repubblicani si oppongono all’incremento delle imposte, chiesto dai Democratici sui più abbienti per non aumentare il carico sulle classi medie e meno abbienti.

Anche sugli eventuali tagli alla spesa i pareri sono discordi, dato che i Repubblicani mirano a ridurre gli stanziamenti per l’assistenza, in particolare il programma Medicare per l’assistenza sanitaria agli anziani, mentre i Democratici vorrebbero concentrarsi sulla riduzione delle spese del Pentagono, cioè per la difesa.

Le convulse trattative in corso in questi ultimi giorni, proprio sull’orlo del precipizio, sembrerebbero aver dato ragione, almeno inizialmente, all’analisi fatta sul Sussidiario da Ugo Bertone un paio di giorni fa, cioè che, al di là delle discussioni pubbliche e di innegabili concrete difficoltà, sia già stato raggiunto un accordo di massima per risolvere la situazione ed evitare provvedimenti che danneggerebbero gravemente la già non brillante economia statunitense.

In effetti, nella notte dell’ultimo dell’anno è passato al Senato, con 89 voti a favore e 8 contro, un accordo di compromesso in cui ciascuna delle parti ha dovuto cedere qualcosa e che, anche per questo, potrebbe trovare difficoltà ulteriori alla Camera, cui è stato inviato per la discussione e dove è stato già contestato dagli “estremisti” di entrambe le parti.

Il problema rimane quello del deficit nel bilancio federale che ha raggiunto il limite consentito, 16,4 trilioni di dollari, proprio il 31 dicembre. Se l’accordo fosse approvato anche alla Camera, dopo la firma di Obama, permetterebbe la gestione dei prossimi due mesi sulla base delle misure fiscali concordate, dando così tempo per risolvere i punti ancora scoperti, principalmente i consistenti tagli alla spesa federale per evitare l’insolvenza.

I Repubblicani hanno la maggioranza alla Camera e l’ala più conservatrice ha già preannunciato un voto contrario, o comunque modifiche che rinvieranno la proposta di legge al Senato, allungando così i tempi. E’ da tenere presente che al Senato degli otto voti contrari cinque erano di Repubblicani. Infatti, molti conservatori ritengono inaccettabile che l’accordo preveda per ora un incremento di pressione fiscale di circa 600 miliardi di dollari e solo 12 miliardi di tagli alla spesa.

Che la strada fosse ancora lunga è dimostrato dal fatto che durante tutta la giornata di ieri si sono tenute riunioni all’interno del Gop per cercare di concordare una posizione unitaria da tenere in aula. Ciononostante, il Partito Repubblicano si è spaccato nella votazione, che ha visto comunque approvato il compromesso bipartisan raggiunto al Senato.

I mercati finanziari già aperti, quelli asiatici, hanno reagito in modo positivo, ma in realtà molti nodi sono ancora da sciogliere, con in primo luogo i tagli alla spesa pubblica federale, come già accennato, e i Repubblicani faranno pesare nelle future trattative il loro appoggio a questo accordo, anche per ritrovare l’unità all’interno del partito.

Per il momento si può trarre una conclusione almeno per noi italiani, cioè che non è una prerogativa dei nostri politici il privilegiare gli interessi di parte su quelli generali, né lo è il portare le situazioni, prima di risolverle, sull’orlo del baratro, fiscale o altro.