Come purtroppo prevedibile, i naufragi nel Canale di Sicilia continuano, e continueranno senza un intervento deciso dei governi, che dovrà partire dalla presa d’atto del fatto che alla base di queste tragedie vi sono le modalità con cui avviene il trasporto dei migranti, la cui situazione è di per sé dolorosa, ma non è la loro causa immediata.

Per compiere il lungo e pericoloso viaggio verso quello che è visto come una sorta di Eldorado, questa povera gente si mette in mano alla criminalità organizzata, pagando anche molto. I trafficanti di migranti impiegano imbarcazioni malandate e sovraccaricate per aumentare i propri guadagni, ponendo le premesse per la tragedia, che avviene poi per le condizioni del mare o per comportamenti degli imbarcati.

Infatti, la strage avvenuta una settimana fa, più di 300 morti accertati finora, è stata causata dal fuoco appiccato per attirare l’attenzione, e quella di ieri, secondo le cronache, dal capovolgimento del barcone provocato dalla ressa degli imbarcati, che volevano attirare l’attenzione di un aereo maltese che li stava sorvolando.

Come già scritto in altra occasione, la cosa più urgente è stroncare questo osceno traffico di esseri umani che finanzia la malavita organizzata e, probabilmente, anche il terrorismo internazionale. Pare che finalmente se ne stia accorgendo anche il nostro governo e si può quindi sperare in una urgente e decisa azione, combinata con l’Europa e gli altri Stati, per riportare sotto controllo la situazione.

Un’azione che dovrà essere molto coordinata ed estremamente decisa, data la situazione di incertezza, se non di caos, lasciata sull’altra sponda del Mediterraneo dalle cosiddette primavere arabe, perché senza una collaborazione di quei Paesi le tragedie continueranno.

Queste continue tragedie, e gli altrettanto continui sbarchi, pongono in luce un altro aspetto: la facilità con cui si può arrivare vicino alle nostre coste. Se vi riescono barconi e gommoni, si può immaginare cosa possano fare contrabbandieri, trafficanti di droga e di armi, organizzazioni terroristiche. Anche per questo è indispensabile una coordinazione e un impegno a livello europeo.

In questo scenario riesce difficile capire l’apporto positivo di un’eventuale eliminazione del reato di immigrazione clandestina, dubbio che si pone anche per quanto riguarda il problema generale dell’immigrazione. Nell’intervista data a ilsussidiario.net, Livia Turco parla della necessità di superare la Bossi-Fini, ma senza spingersi a chiedere un totale ripristino della precedente legge di cui è cointestataria, la Turco-Napolitano, conscia che neppure quella legge riuscì a risolvere il problema.

La Turco ha ragione nel dire che la riduzione dal 35% all’attuale 6% della percentuale di immigrazione clandestina è data dalle frequenti e ampie sanatorie che si sono succedute, ma quel 35% dimostra che anche la sua legge non era efficiente. Il sistema delle quote e dello sponsor ha dovuto fare i conti con la nostra burocrazia, e presentava comunque elementi di rigidità poco adatti alle necessità dell’economia, soprattutto in tempi di crisi. Inoltre, chi fosse fuori delle quote o senza sponsor continuerebbe a cercare di entrare, o rimanere, in Italia da clandestino, come appunto è avvenuto.

Il problema di fondo è ben posto nell’editoriale di Robi Ronza, “Tra accoglienza e invasione legalizzata”, due opposte esigenze da ottemperare, ma come? Oltre che stroncare il traffico di persone, questo rimane il problema centrale e la sua soluzione richiede la partecipazione di tutti, senza pregiudiziali ideologiche, ma con il necessario realismo che sembra spesso mancare. Per esempio, quando si parla di disoccupazione giovanile tralasciando una delle sue conseguenze, cioè che moltissime famiglie italiane il loro “immigrato” lo hanno già in casa, il figlio o la figlia che non riescono a mantenersi autonomamente. Sì, quelli che un tempo sono stati chiamati “bamboccioni”.

Un altro esempio: quando si dice che gli immigrati non portano via lavoro agli italiani. Ciò è per il momento in gran parte vero, perché i nuovi venuti sono disposti a fare lavori che ormai noi rifiutiamo, ma gli immigrati di seconda generazione, con un titolo di studio acquisito in Italia e, magari, cittadinanza italiana, difficilmente si accontenteranno, e giustamente, di continuare a fare i lavori umili e pesanti dei loro genitori. E ritorna pressante la domanda finale di Ronza: “Come fare?”