La notizia dell’interesse di Nestlé all’acquisto di tutto o parte del gruppo Ferrero è di grande rilievo, perché conferma quanto le nostre aziende siano appetibili all’estero e, stranamente, poco per gli investitori italiani. Per quanto smentite da entrambi i protagonisti, queste voci sono verosimili, in primo luogo per l’eccellenza della società di Alba, una multinazionale con un fatturato totale di 7,8 miliardi di euro nel 2012, con 25.000 dipendenti, di cui 8.000 in Italia, distribuiti in circa 40 società operative, 18 stabilimenti e presenza in circa 70 mercati. Il fatturato della società italiana si aggira sui 2,5 miliardi di euro. Un secondo motivo di interesse è che, nonostante le dimensioni, si tratta di un’impresa familiare, che vede tuttora al comando Michele Ferrero, un signore di 88 anni vero artefice del successo della società. La morte, qualche anno fa, del figlio maggiore ha fatto pensare a problemi di successione, anche se un secondo figlio guida ora il gruppo insieme al padre.



Non si sa se siano state fatte offerte precise per l’acquisizione, ma gli analisti valutano la Ferrero a più di 10 miliardi di euro e alcuni si spingono a cifre anche di molto superiori. Chi conosce da vicino Michele Ferrero sostiene che il prezzo non è elemento determinante per una decisione di vendere, al momento esclusa anche dal figlio Giovanni. Da tener presente che Ferrero è considerato l’uomo più ricco d’Italia, con un patrimonio stimato attorno ai 15 miliardi di euro.



Michele Ferrero può essere descritto come un imprenditore “illuminato”, di quelli che hanno ricostruito l’Italia impegnandosi nella propria azienda in prima persona, attorniandosi di collaboratori fidati che hanno accompagnato la crescita dell’azienda da impresa locale a multinazionale, senza improvvide avventure finanziarie, con una certa ritrosia ad apparire, ma con una forte attenzione agli aspetti sociali, in particolare al rapporto con i propri dipendenti. Un modello di impresa il cui più significativo rappresentante è stato Adriano Olivetti.

In queste caratteristiche vi è forse la ragione più radicata dell’avversione a “vendere”, che sembra invece essersi impadronita di tanti altri imprenditori italiani. D’altro canto, Ferrero si è anche contraddistinto per una simmetrica avversione a “comprare”, preferendo espandere il gruppo per linee interne, grazie a una notevole cura dei prodotti e a una forte capacità innovativa.



Se decidesse di vendere, nonostante tutto, vi sarebbero anche altri interessati a comprare, come Mars o Mondelez (ex Kraft). Il gruppo ha una situazione finanziaria del tutto positiva e la sua quota di mercato nel settore dolciario è attorno all’8%, a fronte del 12% di Nestlè. Evidenti, quindi, i vantaggi di una fusione, almeno per la società svizzera, che raggiungerebbe una quota di mercato del 20%, incorporando una serie di marchi leader, come Nutella, Kinder, Rocher, Mon Cherì, per citarne solo alcuni. Dal canto suo, Ferrero entrerebbe in un gruppo leader mondiale che fattura globalmente 75 miliardi di euro, quindi quasi 10 volte il suo fatturato, e la famiglia potrebbe diventare il maggior singolo azionista in una società ad azionariato estremamente frammentato.

Per il momento, i Ferrero escludono la vendita e, come italiani, credo possiamo esserne lieti, perché sarebbe l’ennesima perdita per il nostro Paese, a favore di un gruppo che ha già incorporato Motta, Buitoni, Perugina, San Pellegrino, Panna e Levissima. Non si tratta dell’ennesima questione di “italianità”, anche se non è da ritenersi indifferente dove vengano prese le decisioni strategiche di una azienda simile.

Il punto è che Ferrero è intrinsecamente italiana, non perché ha sede ad Alba, ma perché la sua origine, la sua crescita e il suo modo di operare sono profondamente radicati nel nostro Paese e questa tipicità difficilmente verrebbe salvaguardata all’interno di un gruppo straniero. E sarebbe, comunque, un impoverimento per il nostro Paese.

Rimane la domanda se il “modello Ferrero” e il suo successo potranno continuare in futuro. L’apporto del “signor Michele” è senza dubbio ancora estremamente importante, ma dobbiamo sperare che l’azienda possa andare avanti fruttuosamente anche quando non potrà più occuparsene direttamente.

C’è da augurarselo, per tutte le nostre grandi aziende familiari, ancora molto legate a una precisa figura imprenditoriale, altrimenti le vendite continueranno. Non a caso, gli analisti già cominciano a parlare di possibili futuri casi, come Luxottica o Armani. E, purtroppo, nel nostro caso c’è poco da contare sull’aiuto del “sistema Paese”, come avverrebbe invece altrove.