La vicenda del debito pubblico americano, con il rischio di un disastroso default degli Stati Uniti che ha tenuto con il fiato sospeso il mondo intero, può insegnare qualcosa anche a noi italiani. Innanzitutto, dimostra che non siamo poi così “fuori dal mondo”, almeno per quanto riguarda i partiti politici che, negli Usa, non se la passano molto meglio dei nostri. I Repubblicani sono divisissimi al loro interno, si parla perfino di due/tre partiti che convivono, e buona parte del loro elettorato è in completa confusione. I Democratici, pur traendo vantaggio dalla crisi degli avversari, soffrono sempre di più gli evidenti limiti della presidenza Obama e le elezioni di metà mandato nel 2014 non si presentano semplici neppure per loro.
Inoltre, secondo Standard & Poor’s, questo braccio di ferro tra maggioranza e opposizione è costato all’economia del Paese intorno ai 24 miliardi di dollari, con probabili revisioni al ribasso del Pil, mentre continua a incombere l’ingente debito, più di 16.700 miliardi di dollari, pari a circa 12.300 miliardi di euro. Vale a dire circa 39.000 euro pro capite, un 15% in più di quanto tocca a testa a noi italiani.
Il rapporto debito/Pil, che per noi veleggia verso il 130%, per loro è solo qualche punto sopra la parità, ma il dato si riferisce solo al debito federale, rimanendo esclusi gli stati, di cui alcuni sono messi piuttosto male. Questa pesante situazione debitoria non si riverbera, peraltro, sul costo del debito, che per i titoli decennali è circa la metà del nostro, anche se è a sua volta il doppio dei tassi giapponesi, nonostante il Giappone abbia un rapporto debito/Pil superiore al 200%.
Evidentemente, oltre il rapporto debito/Pil vi sono altri fattori di cui tener conto, tra cui il più noto è la diversa modalità di intervento delle Banche centrali, che in Usa e in Giappone possono battere moneta e usare la leva di una inflazione monitorata per ridurre il costo del servizio del debito. Una prova dell’importanza di questo fattore è l’andamento del nostro spread dopo i limitati interventi effettuati dalla Bce, che per statuto non può invece intervenire sul mercato, e dalla moral suasion esercitata da Mario Draghi.
Un altro fattore rilevante è la natura dei detentori del debito. Data la loro potenza politica ed economica, gli Stati Uniti non hanno avuto finora grandi difficoltà a collocare il loro debito quotato in dollari, tuttora considerata valuta mondiale. In più, nel corso degli anni, si è creata una sorta di “associazione” tra Usa e Cina, con i primi che importavano manufatti cinesi e la seconda che si imbottiva di titoli americani, formula tutt’altro che priva di rischi, ma che ha funzionato.
Per l’Italia è più interessante il caso del Giappone che, accanto alla libertà d’azione della sua Banca centrale, ha il vantaggio di detenere all’interno del Paese la stragrande parte del suo enorme debito. Il debito italiano è attualmente per circa il 40% in mano a non residenti, una percentuale raddoppiata dopo l’entrata nell’euro. Evidentemente, un investitore straniero è più sensibile al “rischio Paese”, come si diceva una volta, e pronto a ritirare i propri soldi a ogni stormir di fronda, o di spread.
Si può supporre un atteggiamento diverso dei detentori residenti, che in un collasso del Paese non perderebbero solo quanto investito in titoli, ma ben di più, e avrebbero perciò molto meno interesse a provocare surrettiziamente una crisi. Inoltre, per la maggior parte di noi italiani non ha un gran senso investire in Bund tedeschi a tasso reale negativo o giù di lì.
Se il debito in mano italiana tornasse a essere attorno all’80%, anche in presenza di un costo del suo servizio immutato, si avrebbe una maggiore stabilità e le somme per gli interessi rimarrebbero in Italia, con indubbi benefici per l’economia. Sarebbe interessante sapere che ne pensano al governo e se hanno qualche strategia in proposito.
Azzardo una proposta. Un grosso problema che l’Italia, come molti altri Stati, deve fronteggiare è il continuo aumento delle diseguaglianze e della concentrazione della ricchezza, da cui le ripetute discussioni sull’introduzione di patrimoniali, o le recriminazioni su emolumenti dei politici, stipendi e liquidazioni di manager di aziende private e pubbliche, pensioni d’oro. Perché allora non trasformarne una parte in titoli di Stato a media-lunga scadenza, con tassi appetibili ma minori di quelli di mercato? Oltre un effetto redistributivo, le minori emissioni necessarie consentirebbero una migliore gestione dei tassi sui mercati.
Forse occorrerebbe esercitare qualcosa di più che una moral suasion, ma credo che anche un “risparmio forzoso” sarebbe più accettabile della patrimoniale sui conti correnti proposta dal Fmi e di cui ha parlato Mauro Bottarelli.