Dopo la scissione avvenuta nel PDL, l’attenzione dei commentatori è concentrata soprattutto su quali saranno i riflessi immediati, su quanti in Parlamento seguiranno i “governativi” e quanti rimarranno con Berlusconi, sulle prospettive future delle due formazioni politiche. E, ovviamente, sulle probabilità di permanenza dell’attuale governo.

Scarsa attenzione mi sembra sia data al fatto che la decisione di tornare a Forza Italia contiene l’abbastanza esplicita dichiarazione di fallimento di tutta la strategia politica di Berlusconi. Forza Italia rievoca senza dubbio l’evento di maggiore portata storica, la discesa in campo di Berlusconi nel 1994, con la fondazione della prima Forza Italia e la sconfitta della “gioiosa macchina da guerra” del PCI di Occhetto, graziato da Mani Pulite, che fermò la lunga marcia del partito comunista verso il governo. Da allora il PCI, sotto le varie sigle che si sono succedute, ha condotto una guerra senza quartiere contro Berlusconi, che ha portato, peraltro, anche alla attuale confusione nel PD, ultima sigla della serie, almeno per il momento.

Se si tiene conto dei travagli interni della Lega, in caduta verticale di consensi e in piena crisi di identità, le magmatiche condizioni del centro, qualunque cosa ciò significhi, e il sorgere del movimento di Grillo, il quadro politico si presenta ben diverso da quello del 1994, a parte forse il giudizio degli italiani sulla classe politica, ma anche questo più rassegnato. In aggiunta, nel frattempo l’Italia è entrata nell’Eurozona e da qualche anno imperversa una gravissima crisi economica.

Insomma, la riedizione di Forza Italia sembra molto un amarcord, una rievocazione nostalgica che si è ben manifestata nel folclore del Consiglio Nazionale, ma che sembra destinata solo a far concorrenza a Grillo sul suo stesso piano, o meglio, sul piano delle articolazione dei vecchi partiti o movimenti, lasciando quello della Rete a M5S.

La rinascita di Forza Italia ha come conseguenza tutt’altro che irrilevante lo scioglimento del Popolo delle Libertà, per volontà dello stesso Berlusconi, che sancisce così il fallimento di un’altra sua importante operazione politica: lo sdoganamento della destra che si riconosceva in Alleanza Nazionale con la sua confluenza, appunto, nel PDL. Con questa operazione era potuto nascere, per la prima volta nell’Italia repubblicana, un centrodestra unito, per quanto articolato. Con il ritorno a Forza Italia, anche questa creazione politica berlusconiana viene cancellata.

Il paradosso è che tutto ciò avviene dopo che nel 2008 gli italiani avevano dato al centrodestra una solidissima maggioranza in Parlamento e, nonostante questo, Berlusconi non è riuscito neppure a terminare la legislatura al governo, passando la mano nel 2011.

Una gran parte della responsabilità di questo paradossale esito va attribuita a Berlusconi e al suo culto della personalità, la propria. Se la volessimo mettere per citazioni storiche, si è passati da un “Le parti c’est moi” alla Re Sole, al meneghino “Ghe pensi mi”, poi all’ “Après moi le déluge” alla Luigi XV, per finire a un biblico “Muoia Sansone con tutti i Filistei”, che rischiano però di non essere solo i “governativi”, ma tutti gli italiani.

Qualcuno potrebbe dire che si tratta solo di tentativi di Berlusconi di sottrarsi al carcere o, dall’altra parte, di legittime azioni per difendersi dai comportamenti persecutori di una parte della magistratura. Se si guarda a quanto successo dal momento della “discesa in campo” è difficile poter negare che vi sia stato un accanimento giudiziario nei confronti di Berlusconi e che l’arma giudiziaria sia stata utilizzata senza scrupoli dai suoi avversari politici, molti dei quali hanno poi dovuto constatare che, per rimanere alle citazioni, “chi di arma ferisce, di arma perisce”.

Detto questo, una strategia alternativa era tuttavia possibile: Berlusconi poteva dare lui stesso le dimissioni, presentandosi così come una vittima della persecuzione politica di una magistratura deviata. Con le dimissioni volontarie, Berlusconi avrebbe avuto buone probabilità di ricompattare il partito, di ottenere maggiore consenso nell’elettorato, anche tra quegli elettori non del centrodestra preoccupati della deriva politico-giudiziaria. Il governo non sarebbe stato inutilmente messo a rischio, il PD sarebbe stato in difficoltà e perfino i duri e puri che dall’estero ci fanno strumentali prediche avrebbero avuto meno argomenti per attaccare il nostro Paese.

E anche l’Italia avrebbe avuto il suo, casalingo, “affare Dreyfus”.