Seat PG ha chiesto il concordato preventivo non riuscendo a far fronte ai propri debiti. Molti forse rimarranno perplessi di fronte a questo nome, ma diventerà tutto chiaro spiegando che quel PG sta per Pagine Gialle. Anche se in parte soppiantati dalla ricerca di indirizzi e numeri telefonici su Internet, i libroni di carta gialla per le categorie merceologiche e quelli bianchi per i numeri telefonici sono stati per molti anni strumenti indispensabili per moltissimi italiani.

Da tempo l’azienda navigava ormai in cattive acque ed era stata necessaria una ristrutturazione dell’assetto finanziario, compiuta lo scorso anno e che sembrava potesse rimetterla in carreggiata. Leggendo le relazioni del Consiglio di Amministrazione e del Collegio dei Sindaci, si apprendeva che la situazione operativa era “sana”, nonostante alcuni commentatori ponessero in rilievo qualche difficoltà a cogliere le opportunità date dalla rete. 

Il problema era, ed è, finanziario, essendo l’azienda oberata di debiti e, nonostante la ristrutturazione di cui si è accennato, alla fine di gennaio il Cda ha annunciato di non essere in grado di pagare gli interessi in scadenza. Per il 2013, il debito da restituire è di 200 milioni di euro (di cui 130 di interessi) e la liquidità disponibile solo di 150 milioni. Da qui la decisione di rivolgersi al Tribunale. 

La quotazione del titolo in Borsa si è praticamente azzerata: per dare un’idea, ai prezzi di chiusura di ieri con poco più di 1 euro si potevano comprare 1000 azioni Seat. Il valore psicologico di questo altro crollo in Borsa è significativo, anche se non oggettivamente paragonabile a quelli di Saipem o Mps. 

Seat PG nasce dalla divisione della vecchia Seat in due: quella di cui stiamo parlando è rappresentata dalla parte elenchi telefonici e attività di marketing e servizi per le imprese, mentre l’altra, rimasta a Telecom con il nome di Telecom Italia Media, assomma le attività televisive e internet, a partire da La7 e Mtv. Nel 2003 la Seat editoriale viene acquistata da alcuni fondi di investimento, raccolti sotto il nome di Silver SpA. 

L’acquisizione avviene con modalità riconducibili a quello che tecnicamente si chiama leveraged buyout. La tecnica consiste nel finanziare l’acquisto in parte con capitale proprio e in parte con denaro preso a prestito, di solito con collaterale rappresentato dalle azioni dell’azienda obiettivo. Compiuto l’acquisto, l’azienda che si è utilizzata come acquirente, la cosiddetta azienda veicolo, viene fusa con quella acquisita, in capo alla quale rimane il debito.

E’ grosso modo quanto avvenuto con Seat, ma il problema è che i fondi acquirenti hanno pensato bene di recuperare rapidamente almeno in parte il loro investimento staccando, già nel 2004, un maxidividendo straordinario di 3,5 miliardi di euro. L’indebitamento elevato che ne è derivato e gli effetti dell’attuale crisi hanno portato alla situazione odierna.

Il nostro sistema imprenditoriale è sempre stato criticato per essere troppo centrato sui prestiti bancari, sia per una certa ritrosia dei grandi imprenditori a investire soldi propri, vedasi gli Agnelli, sia per la scarsa incidenza dei cosiddetti venture capitalist, cioè di quelle società professionali che investono capitale di rischio in aziende promettenti, da cui poi escono recuperando il proprio capitale con debito profitto. 

Il caso Seat sembrerebbe dimostrare che anche quando c’è, da noi il venture capital si comporta non da ardimentosi capitani di ventura, ma da “capitani coraggiosi” (come i dalemiani di Telecom) che abbandonano la nave con profitto, loro, o da venali mercenari. Ed è una amara lezione. 

Così come è amara la lezione per i soliti piccoli azionisti, e senza dimenticare il dramma che stanno vivendo i dipendenti Seat, che erano circa 4000 alla fine del 2011, ultimo dato sul sito dell’azienda. Forse, queste due ultime categorie potrebbero unirsi e intentare un’azione di responsabilità verso gli amministratori dei fondi, poco venture e molto vulture.