Una serie di decisioni prese recentemente da alcuni magistrati farebbe pensare che il principio guida per una parte della nostra magistratura sia diventato l’eterogenesi dei fini, principio secondo il quale si ottengono senza intenzione risultati diversi, e spesso contrastanti, a quelli voluti intenzionalmente. L’ultimo caso è quello del giudice fallimentare di Reggio Emilia che ha invitato i curatori fallimentari del suo tribunale a ritirare dalle filiali di Mps i depositi relativi alle cause di fallimento in corso. Secondo quanto riportato dalla stampa, si tratta di più di 5 milioni di euro, già in gran parte ritirati, almeno così si dice.
Il giudice in questione ha motivato la sua decisione in un modo di per sé ineccepibile: come giudice fallimentare il suo compito è quello di mantenere il più possibile intatto, nell’interesse dei creditori, il patrimonio delle aziende sotto procedura, e deve quindi agire con molta prudenza. E’ indubitabile che il caso Mps sia per molti versi oscuro, quindi, ecco l’invito ai curatori, in nome della prudenza per il fatto di doversi “preoccupare di soldi che non sono miei.”
Resosi probabilmente conto dello sconquasso che stava creando, con il rischio che altri tribunali invitassero i curatori a ritirare i depositi e che i clienti normali si precipitassero agli sportelli a ritirare i propri, ha aggiunto di non aver dati particolari sulla situazione Mps e di non aver voluto in alcun modo dare “un segnale a sfavore di Montepaschi.”, ma solo un “suggerimento”.
Inevitabile lo stupore e l’irritazione della banca senese, che si è affrettata a sottolineare la sua solidità, ma ciò che sta emergendo a livello giudiziario sul Montepaschi non contribuirà certo ad aumentare la fiducia, a parte le escursioni borsistiche che ci possiamo aspettare e che sono, anzi, già iniziate.
Da quanto detto, mi pare che l’espressione “eterogenesi dei fini” sia adeguata, anche se rimane la domanda del perché si sia così diffusa tra i magistrati. Il giudice di Reggio Emilia, secondo quanto riportato, la spiegazione l’ha data evidenziando la possibile sua responsabilità se un domani quei depositi si polverizzassero.
Ci si può chiedere perché la stessa invocata prudenza non sia stata usata nella comunicazione della sua decisione, invece di finire quasi subito sui giornali. O perché non si è contattata direttamente la banca, per avere informazioni e concordare, magari, un’azione per proteggere i depositi, anche per sventare possibili sospetti su favori fatti dai curatori alle altre banche cui i depositi sono trasferiti.
Anche in questo caso, tuttavia, l’impressione è che le decisioni vengano prese senza tener conto di tutti i fattori coinvolti e di tutte le conseguenze che possono derivare, cioè in modo irragionevole, e che la legge venga spesso applicata in modo rigido e indiscriminato (cioè, senza discernimento, oculatezza). Insomma, la situazione che i nostri antenati descrivevano con l’aforisma “Summum jus, summa iniuria”.
Si ripete qui quanto già visto per la vicenda dell’Ilva, con il blocco sulle banchine del porto di prodotti già finiti, che se inquinano lo fanno rimanendo lì, non se vengono venduti, aggravando così la situazione dell’acciaieria e rendendo più difficile anche il recupero ambientale. Né sfuggono a questa critica i casi Saipem e Finmeccanica, dove un’applicazione meno “automatica” della legge avrebbe consentito di perseguire ugualmente i reati, una volta accertata oggettivamente la loro esistenza ed entità, senza mettere a repentaglio le aziende coinvolte, a esclusivo vantaggio dei concorrenti degli altri Paesi più “accorti”.
Tornando al caso Mps, sorgono altre domande. Le procure sono solite innalzare la bandiera dell’obbligatorietà dell’azione penale prevista dall’articolo 112 della Costituzione. Tuttavia, nessuna procura pare essersi accorta che Mps stava apertamente violando, e non da ieri, la legge Ciampi. Questa legge, il cui decreto attuativo risale all’inizio del 1999, imponeva alle Fondazioni bancarie di rinunciare al controllo sulle banche da cui originavano. Perché questo obbligo non è stato rispettato dalla Fondazione Montepaschi, che non mi risulta ricadere nelle deroghe previste?
La stessa domanda dovrebbe essere rivolta ai governi che si sono succeduti in questi anni, dato che le Fondazioni che mantenevano il controllo della banca erano sottoposte al controllo del Ministero dell’economia e delle finanze. Tutto in regola per costoro, anche l’ultima, disastrosa acquisizione dell’Antonveneta?
Un’ultima domanda sarebbe da porre a Giuseppe Guzzetti, presidente dell’Acri e della Fondazione Cariplo, che ieri, denunciando la situazione anomala sopra descritta della Fondazione Montepaschi, ha invitato a lasciare le altre Fondazioni fuori dalle polemiche. L’Acri è l’associazione che rappresenta le Casse di Risparmio SpA e le Fondazioni di Origine Bancaria, nate a seguito della Legge Amato del 1990. Secondo le parole di Guzzetti riportate in un’agenzia Reuters, “la situazione patologica ha i suoi elementi di pericolo nella composizione della Fondazione Montepaschi che è fuori dalla Legge Ciampi” Anche loro lo scoprono solo adesso? A quanto pare, è iniziato il solito scaricabarile e, se possono, i topi cominciano ad abbandonare la nave.