Per il momento appare del tutto azzardata ogni ipotesi sul vero significato delle dimissioni, venerdì scorso, del primo ministro libanese Najib Mikati, dato che queste dimissioni hanno preso di sorpresa sia gli altri partiti della coalizione, sia l’opposizione.
Mikati ha definito le sue dimissioni una decisione personale derivante dai dissidi interni al suo governo di coalizione e che spera che possano portare alla costituzione di un nuovo governo di unità nazionale. Mikati, musulmano sunnita, aveva già minacciato le dimissioni nello scorso novembre, dopo l‘assassinio del capo dei servizi di informazione della polizia libanese, ma era stato dissuaso dal presidente della Repubblica e anche gli Stati Uniti lo avevano invitato a rimanere al suo posto, data la grave situazione del Paese.
La causa immediata delle dimissioni sembra essere il dissidio con Hezbollah, la potente organizzazione sciita presente nel suo governo, sulla regolamentazione delle elezioni politiche, previste tra tre mesi, e sulla proroga nel suo ufficio del capo dei servizi di sicurezza interna, anch’egli sunnita.
Emerge così sullo sfondo quello che continua ad essere il problema fondamentale del Libano, la convivenza tra i suoi tre grandi gruppi: sunniti, sciiti e cristiani, pur molto divisi politicamente al loro interno. A quanto pare, anche l’altro partito sciita, Amal, considerato meno estremista di Hezbollah, e il partito cristiano del generale Michel Aoun hanno appoggiato Hezbollah. D’altro canto, la fazione sunnita di Mikati è a sua volta in disaccordo con quella di Hariri, suo predecessore come premier.
Nel valutare la situazione politica del Libano occorre tener presente il suo particolare assetto istituzionale, che prevede che il presidente della Repubblica sia cristiano, il primo ministro sunnita e il presidente del Parlamento sciita. Questa rigida struttura istituzionale dovrebbe assicurare, e ha in passato assicurato, la governabilità di un Paese così composito.
Accanto alle questioni interne, vi è la crisi nella vicina Siria con la massa di profughi in fuga dalla guerra civile in quel Paese, che sta mettendo a dura prova il Libano, sia sotto il profilo economico che sociale. E anche politico. Il conflitto siriano non può essere ridotto a una guerra tra religioni, ma non vi è dubbio che le due parti in lotta possano essere ricondotte, a grandi linee, agli sciiti che sostengono il regime e ai sunniti che appoggiano i ribelli, con i cristiani in mezzo.
Queste divisioni, sempre a grandi linee, si stanno riproducendo anche in Libano, dove si sono già verificati scontri tra i sostenitori dei ribelli e quelli di Assad, ad esempio, un paio di giorni fa nel nord, a Tripoli. Tripoli è anche la città di Mikati e del capo dei servizi di sicurezza e, come riportato dalla Reuters, venerdì sera i loro sostenitori sono scesi in piazza per manifestare a loro favore.
Tutto questo porta ancor più in evidenza la necessità di portare a una conclusione, il più possibile concordata, la guerra civile siriana, ormai diventata intollerabile per le vittime e le distruzioni, ma anche per la sua capacità di far esplodere gli incerti equilibri di quella regione. Si tratta, infatti di un’area strategica. in cui si confrontano potenze regionali, come Arabia, Turchia o Israele, ma in cui sono coinvolte anche le grandi potenze: Stati Uniti, alleati dei tre Paesi citati, Russia, che sostiene il regime di Assad, e Cina, che appoggia l’Iran.
Pur nella complessità della situazione, si potrebbe a grandi linee presentare il seguente scenario, tutt’altro che tranquillizzante: Stati Uniti ed Europa, dietro il blocco sunnita, in appoggio dei ribelli siriani, Russia e Cina, dietro la filiera sciita, Hezbollah libanesi e Iran, a sostegno del regime di Assad. Con il Libano a rischio di precipitare di nuovo in una sanguinosa guerra civile.
Secondo alcune interpretazioni, le dimissioni di Mikati sarebbero state, questa volta, sponsorizzate dagli Stati Uniti e dai suoi alleati sunniti per mettere Hezbollah fuori dal governo. Si tratta di voci, ciò che è certo è che in occasione della visita di Obama in Israele, il presidente americano si è scontrato con Hezbollah. Obama ha infatti rinnovato la sua richiesta di inserire il movimento sciita nella lista delle organizzazioni terroriste, cosa su cui la UE nicchia, e Hezbollah ha risposto dicendo che Obama si presenta “ come un impiegato dei sionisti e non come il capo dell’amministrazione di un Paese indipendente.”
Quel che è peggio, Hezbollah ha anche affermato che le dichiarazioni di Obama rafforzano la convinzione dell’inutilità delle trattative per risolvere il conflitto tra Israele e palestinesi e che l’unica strada è quella della “resistenza”. Sarà bene che i “potenti” si diano da fare, e in modo serio.