Hanno fatto un certo effetto le recenti dichiarazioni di Mario Draghi sulle difficoltà che le famiglie e le Pmi incontrano nell’accesso al credito, concesso in molti paesi a tassi di interesse troppo alti. Draghi ha definito le Pmi la spina dorsale dell’Eurozona, ricordando che tre quarti dell’occupazione viene da esse e che le loro difficoltà costituiscono un grave pericolo per tutta l’Eurozona. Draghi ha elencato tre fattori alla base della stretta creditizia, affermando che la Bce ha operato per affrontarne uno, quello dell’immissione di liquidità nel sistema, ma rinviando ad altri attori gli altri due. Il secondo elemento citato è la capitalizzazione degli istituti bancari, secondo Draghi sotto la responsabilità delle autorità nazionali di ogni Paese. Il terzo è quello che ha suscitato, forse, più reazioni e cioè il fatto che le banche sono restie a concedere credito a famiglie e Pmi perché “sono spaventate dalla possibilità che i clienti non ripaghino i prestiti”.



Chiunque abbia avuto occasione di chiedere un prestito a una banca sa benissimo quante siano le garanzie richieste, senza le quali nessun prestito viene concesso. Inoltre, anche in presenza di queste garanzie, viene chiesto di stipulare un contratto di assicurazione, di solito addebitato in toto al cliente. Fino a poco tempo fa, quando è stato imposto alle banche di presentare al cliente tre preventivi diversi, l’assicuratore era una società di proprietà della banca stessa. Nonostante da tutto ciò derivi una oggettiva riduzione dei rischi per la banca, i tassi di interesse rimangono molto alti, come ha sottolineato Draghi, con livelli spropositati di differenza tra tassi attivi e passivi.



Le banche si difendono dicendo che le sofferenze sono già molto alte e che devono investire la liquidità ricevuta in titoli sovrani, peraltro con non trascurabili guadagni, riducendo la disponibilità per famiglie e imprese. Sarebbe interessante sapere quanti sono i fondi immediatamente ridepositati presso la stessa Bce, una prassi che Draghi ha cercato di evitare riducendo pesantemente i tassi riconosciuti a questi depositi. Sarebbe altrettanto interessante sapere qual è il livello di capitalizzazione reale delle nostre banche, altro punto critico segnalato da Draghi, se non altro per sfatare l’impressione che anche i banchieri si comportino come gli altri “grandi” imprenditori, molto restii a impegnare soldi propri nelle loro imprese. Cioè che anch’essi facciano parte di quel “capitalismo relazionale” che, all’insegna del simul stabunt simul cadent, si sostengono a vicenda con una serie di intrecci e di incroci, ma con pochi capitali investiti.



Draghi sottolinea che le condizioni del credito sono migliori per le grandi imprese, forse proprio per questo far parte dello stesso sistema. E allora, ritornando al problema delle sofferenze, sarebbe decisamente il caso di andare a vedere quali sono le esposizioni a rischio delle nostre banche verso le grandi imprese, quali sono le perdite accumulate e le risorse bloccate in investimenti che hanno un forte colore di sistema, ma non quello nazionale, ma appunto degli “amici degli amici”.

Alcuni casi sono ben noti, come quelli discussi recentemente della Telecom e della Rcs: quante risorse sono state così sottratte al credito a famiglie e Pmi? E quanto è costato l’intervento delle banche nello equity swap che, nel 2005, ha permesso agli Agnelli di mantenere il controllo della Fiat a spese, appunto, delle banche e quindi di tutta la collettività? Anche se la grande stampa non ha dato molto risalto alla vicenda, l’intervento della magistratura ha portato alla condanna in Appello dell’ex presidente di Ifil, Gianluigi Gabetti, e dell’avvocato degli Agnelli, Franzo Grande Stevens.

Personalmente credo che Draghi abbia ragione e che su questi temi debbano intervenire le autorità nazionali, governo e Banca d’Italia, ma qui casca l’asino, come si suol dire: quale governo? Il futuribile governo di cambiamento proposto dall’unico partito italiano in Parlamento fin dalla nascita della Repubblica? O il cosiddetto governo dei tecnici, in carica per gli affari correnti? O dobbiamo aspettare che sia la magistratura a imporre alle banche la politica di concessione dei crediti?

Certo, ci sono le varie associazioni di categoria, l’Abi, l’Acri e via dicendo, cioè quelle che si sono accorte dello sconquasso di Mps solo dopo l’intervento della magistratura. Certo, c’è Bankitalia, ma le sue possibilità sono limitate, dopo la cessione di sovranità alla Bce, che su questo però si tira indietro. Proprio per questo, tuttavia, non potrebbe opporsi a un intervento tipo quello della Bank of England che ha imposto vincoli nella concessione di liquidità alle banche condizionandoli all’impiego che ne veniva fatto, prevedendo sanzioni per i trasgressori.

Lo vorrà fare Bankitalia, o le verrà ricordato che è essa stessa proprietà di un gruppo di banche?