Quanto sta accadendo nel gruppo RCS dà uno spaccato di quanto anche il mondo della finanza e dell’imprenditoria sia distaccato dalla situazione in cui versa il Paese. Come è noto, i conti della RCS sono disastrosi e, dopo i 78 milioni di perdita di questo primo trimestre, è inevitabile una pesante riduzione del capitale sociale. Il CdA ha proposto un aumento di capitale per 500 milioni, più o meno quanto la perdita consolidata del gruppo, scatenando la bagarre tra i soci. Il debito verso le banche ammonta a circa 575 milioni di euro.
Non vi è dubbio che l’attuale sia un periodo critico per tutto il settore editoriale, investito da una crisi che molti ritengono, per il cosiddetto settore “cartaceo”, irreversibile di fronte al diffondersi dei nuovi media, in particolare di internet. Non tutti condividono questa tesi, ma è certo che il settore debba essere ridimensionato, come sta accadendo un po’ dappertutto. La situazione di RCS, però, sembrerebbe più grave di quella dei concorrenti, probabilmente per una maggiore difficoltà ad adeguarsi alla continua evoluzione, difficoltà dovuta anche al suo complesso e composito azionariato, tipico di un “salotto buono” del sistema di potere, e come tale svincolato da banali regole industriali.
Tuttavia, l’attuale crisi sta portando alla ribalta i problemi di fondo del gruppo, da cui il rifiuto, anche polemico, di alcuni nomi “pesanti” a partecipare all’aumento. In RCS è presente un patto di blocco che raccoglie il 58% delle azioni, ma per il momento solo il 44% parteciperà certamente al futuro aumento, che necessita della maggioranza dei due terzi. Tra coloro che non parteciperanno all’aumento ci sono le Generali, Paolo Merloni, uscito dal CdA, Della Valle e Benetton, che voteranno contro. A favore e disposti a partecipare al di là della loro quota attuale, Fiat e Intesa Sanpaolo. Ancora incerti altri soci, tra cui Pesenti e l’imprenditore della sanità Giuseppe Rotelli, la cui quota è quasi del 17%. Le banche aderenti al consorzio di garanzia dell’aumento hanno intanto assicurato un apporto di pre-garanzia pari a 182 milioni di euro.
Questo è un primo elemento di riflessione che emerge dal quadro descritto, cioè il considerevole impegno delle banche in un momento in cui è all’ordine del giorno, anche del nuovo governo, la stretta creditizia nei confronti delle imprese, costrette in gran numero a chiudere. RCS è una grande azienda la cui chiusura avrebbe esiti molto dolorosi, ma ancor più dolorose sono le conseguenze del fallimento di migliaia di Pmi, anche a causa del mancato credito. Che verrà ancor più a mancare se le banche continueranno a immobilizzare in queste operazioni risorse così ingenti.
Una seconda riflessione è che anche questa volta sarà difficile identificare i responsabili di questa disfatta e chi pagherà il conto, a parte dipendenti e piccoli azionisti. E rimane confermato un vecchio detto che, aggiornato, recita: “se devi 100.000 euro a una banca, il guaio è tuo, se devi 100 milioni, il guaio è della banca”. RCS ne deve quasi 600 e, appunto, il problema è delle banche.
Un terzo punto è che la divisione tra banca di credito e banca di investimento non è solo un problema degli Stati Uniti. Se è nella logica di una banca di investimento come Mediobanca essere in RCS, si capisce meno la ragione per cui ci sia, e in questa misura, una banca ordinaria come Intesa Sanpaolo. Peraltro non nuova a questo tipo di investimenti, vista la sua presenza anche in Alitalia e in Telco, socio di riferimento di Telecom. E’ interessante notare che i soci finanziari della Telco sono, oltre Banca Intesa, Generali e Mediobanca, e in passato anche Benetton, tutti soci attuali di RCS.
Se per le società finanziarie si può parlare di una valutazione pesantemente sbagliata della validità dell’investimento, c’è da chiedersi cosa ha spinto società industriali come Pesenti, Benetton, Pirelli a investire in settori così lontani da quelli in cui operano. Sembrerebbe più logico aver investito quei soldi per rafforzare le loro imprese, a meno che vi siano altri vantaggi a entrare in RCS che mi sfuggono.
Insieme a Intesa Sanpaolo, anche Fiat si è detta disposta a investire nell’aumento di capitale oltre la sua quota. Eppure Marchionne sta aspettando che un tribunale americano decida qual è il valore delle azioni in mano alla Veba per aumentare la sua quota in Chrysler in vista della fusione tra le due società. Ci si aspetterebbe, semmai, un’uscita da RCS per utilizzare la liquidità nell’operazione Chrysler, o in Fabbrica Italia, magari vendendo al clan Agnelli anche l’Itedi, la società editrice de La Stampa. In fondo, la Fiat fa automobili non giornali, come mi pare una volta disse lo stesso Marchionne.
In conclusione, sembrerebbe che la stretta creditizia per i “soliti noti” non esista e che, nonostante la perdurante crisi, i giochetti di potere di poteri che sono forti solo nel sostenersi reciprocamente, possibilmente con i capitali degli altri, continuino imperterriti. Anche costoro, come i politici, sembrano vivere in una torre eburnea al di sopra dei comuni mortali e non si rendono conto di quanto la situazione sia diventata pericolosa. Perfino i politici sembrano in via di risveglio, che aspettano banche e grandi (!) imprenditori?