Nonostante la crisi continui a imperversare, le Borse stanno da qualche giorno correndo e alcune, come New York, Tokyo e Francoforte, hanno registrato quotazioni record. Delle due l’una: o la crisi è passata e non ce lo dicono, o le Borse hanno poco a che fare con l’economia. O forse, sono solo indicatori parziali, che risentono pesantemente della liquidità circolante e delle previsioni che fanno sul futuro dei vari Paesi. Può essere interessante dare un’occhiata all’andamento dei corsi sulle principali Borse negli ultimi cinque anni, cioè dall’inizio della crisi, partendo dalla principale, New York, in cui l’indice Dow Jones Industrial ha toccato il massimo storico, anche se poi ha cominciato a ripiegare, rimanendo comunque attorno al 17% in più rispetto alla prima settimana del maggio 2008.

Anche il Nikkei ha preso il volo, recuperando pienamente quanto perso in questi cinque anni, e altrettanto ha fatto l’indice londinese, che ora viaggia con circa un 7% in più rispetto al 2008. Ma dopo New York, il risultato migliore lo ha ottenuto il Dax di Francoforte, con un + 6%. Quindi le quattro piazze più grandi hanno registrato dati molto positivi, che potrebbero ispirare un po’ di quella fiducia di cui tanto si ha bisogno.

Vediamo quindi le altre Borse europee, ma qui la fiducia sparisce subito. In effetti c’è l’indice svizzero superiore di circa il 5% rispetto a cinque anni fa, ma il Cac 40 francese ancora perde più del 20% e anche la virtuosa Olanda è sotto del 25%. Non stupisce, quindi, il risultato della Spagna, sotto del 39% rispetto al 2008.

E l’Italia? Ci si potrebbe aspettare una posizione intermedia tra Spagna e Francia; invece, l’indice FTSE All Share perde il 47% e il FTSE Mib, che comprende le 40 maggiori società quotate a Piazza Affari, perde il 50% tondo. Ma davvero la nostra situazione è peggiore di quella spagnola? Tutti i dati fondamentali indicherebbero il contrario e possiamo quindi pensare che un risultato così negativo dipenda da caratteristiche particolari della nostra Borsa, senza dubbio più “asfittica” di altre, sia per la più bassa capitalizzazione, sia perché molto concentrata su poche aziende e molto condizionata da alcuni settori specifici, come quello bancario. D’altra parte, anche tutto il nostro sistema di imprese è molto bancocentrico e poco disposto verso la Borsa, qualunque sia il giudizio che si può avere su questa caratteristica.

Vale la pena di concentrarci su quanto avvenuto nelle altre Borse per trarre qualche ulteriore indicazione. Lo sviluppo dell’indice statunitense sorprende fino a un certo punto, vista la forza della piazza finanziaria di New York, l’importanza che rivestono ancora gli Stati Uniti come centro di attrazione, non solo finanziario, e il continuo stampare moneta della banca centrale. Altrettanto si può dire per Tokyo, con la politica del governo giapponese, pur non priva di rischi, diretta a far uscire il Paese da lunghi anni di deflazione, e con la banca centrale che anche ha deciso di stampare moneta. Londra è la maggiore piazza finanziaria europea, è fuori dall’euro, ha mantenuto l’indipendenza della sua banca centrale e ha un’economia che dà segnali, sia pur deboli, di ripresa.

Ma la Germania? Come mai l’indice tedesco, pur avendo gli stessi vincoli degli altri paesi dell’eurozona, dà risultati così diversi? Basta a spiegare il fenomeno il fatto che la sua economia, pur con qualche insorgente problema, abbia resistito meglio delle altre alla crisi? Come si è visto, un altro importante Paese del “circolo virtuoso”, l’Olanda, ha risultati ben peggiori, come li ha la Francia, forse ora ex virtuosa.

Una spiegazione potrebbe essere che una parte della grande liquidità in circolazione sia alla ricerca di investimenti redditizi, ma senza rinunciare alla sicurezza, e che privilegi l’investimento in economie solide, come appunto quella tedesca. Anche perché la Germania, volenti o nolenti, conduce e condiziona il resto dell’Eurozona, sia i paesi più legati a essa, sia i periferici, quelli derisoriamente chiamati Pigs, ora Piigs per includere noi, e forse domani Pfiigs, per far entrare anche la Francia.

In altri termini, visto che il gioco è condotto dalla Germania, i mercati hanno concluso che per lei i vincoli posti dall’euro sono meno pesanti e, comunque, da lei modificabili, come già accaduto. Ipotesi questa che il nostro nuovo governo farebbe bene a considerare e ad agire di conseguenza. Su questa linea si apre però un altro possibile scenario, di cui per la verità si parla da tempo e che, di tanto in tanto, sparisce per poi riapparire, come un torrente carsico.

Mi riferisco all’uscita della Germania dall’euro, seguita dai paesi satelliti, quelli che spesso dimostrano ancor più rigore teutonico, come Olanda e Finlandia. Se ci si pensa bene, per i paesi mediterranei l’uscita dall’euro per tornare alle monete nazionali rappresenterebbe un’opzione molto dolorosa, conveniente solo in presenza di danni maggiori provocati dalla permanenza nell’Eurozona (per alcuni il punto limite non è lontanissimo). Per la Germania la situazione sarebbe diversa, se si tiene conto che l’euro è stato disegnato sul marco tedesco (ne sappiamo qualcosa noi, con il disastroso cambio accettato da Prodi e Ciampi pur di “entrare in Europa”).

Certo, anche per i tedeschi non sarebbe un’operazione del tutto indolore, ma il limite oltre il quale i benefici supererebbero i costi non sembra molto lontano. O forse, è quanto pensano i mercati, abituati a speculare, cioè a prevedere ciò che, ragionevolmente, accadrà.

Quello di prevedere ciò che accadrà e preparare le opportune strategie per affrontarlo dovrebbe essere il compito principale dei politici, ché questo significa governare. Su questo non c’è molto da sperare e allora prepariamoci ai nuovi scenari, magari rileggendo l’analisi che Joachim Starbatty, professore emerito di Tubinga, aveva fatto a tal proposito su ilsussidiario.net, un anno e mezzo fa.