Che un ministro venga fischiato durante un discorso non da facinorosi estremisti, ma da un’associazione professionale è senza dubbio una notizia. E’ quanto successo ieri alla assemblea annuale della Confcommercio, quando il ministro dello Sviluppo Economico, Flavio Zanonato, non si è detto sicuro della possibilità di non aumentare l’Iva al 22% dall’attuale 21%. Mi pare, però, che la notizia finisca lì, ai fischi. Zanonato si è limitato a dire che sarebbe opportuno non aumentare l’Iva, ma l’aumento decretato dal precedente governo è ormai inscritto in bilancio e occorre quindi trovare fondi alternativi. Niente, cioè, che già non si sapesse, e neppure la fonte delle possibili entrate alternative è una notizia, perché il ministro ha parlato di possibili riduzioni di altre voci di spesa. E rimarrà una non notizia fino a che non ci diranno cosa effettivamente taglieranno, comunicandoci finalmente le proposte specifiche contenute nella spending review del precedente governo.

Il presidente dei senatori del Pdl, Renato Schifani, e il segretario del Pd, Guglielmo Epifani, si sono dichiarati d’accordo con il presidente di Confcommercio, Carlo Sangalli, sulla necessità di non aumentare l’Iva. Rimane l’impressione che Zanonato abbia avuto l’onestà di non promettere ciò che non era sicuro di poter mantenere, anche a costo dei fischi.

E’ comunque comprensibile l’atteggiamento dei commercianti, in prima linea rispetto alle conseguenze negative dell’aumento e già alle prese con la diminuzione dei consumi derivante dalla crisi. Sarebbe bene, però, vedere il problema in modo più ampio o se si preferisce, meno tattico. Per cominciare, l’aumento è di un punto percentuale e, per quanto grave, non è detto che sia così esiziale. Il governo potrebbe rivedere le percentuali Iva nei vari settori, così da favorire i consumi più essenziali e quelli più vulnerabili all’aumento. Non si tratta della solita ideologia anti-ricchi, ma di prendere atto che per certe tipologie di consumi l’aumento dell’1% può essere irrilevante, per altre distruttivo.

Nella scelta dei settori, occorrerebbe tener conto anche dell’entità dei ricarichi, perché dove i margini sono molto ampi è possibile evitare di scaricare totalmente l’aumento sul consumatore finale. Sarebbe opportuno, peraltro, che tutte le categorie evitassero di applicare automaticamente questo principio, anche se ormai consolidato storicamente. Per i produttori è importante recuperare spese fisse, impegnando di più gli impianti, e per i commercianti mobilitare al massimo la merce, soprattutto in tempi di difficoltà di finanziamento.

E’ poi da tener presente che la riduzione del potere di acquisto delle famiglie non è l’unico motivo della diminuzione dei consumi. Il clima di incertezza e di sfiducia ormai imperante porta alla prudenza negli acquisti, una specie di “tesaurizzazione” del potere di acquisto in attesa di tempi migliori. Su questi mancati consumi, l’Iva può far ben poco e sarebbe interessante stabilire se ha ragione chi parla di “soldi sotto il materasso”, o se questi risparmi più o meno forzati continuano a finire in banca. Tanto per saperne di più su quanto le banche siano incolpevoli dell’attuale restrizione del credito, di cui sono state accusate anche da Confcommercio.

Un altro fattore su cui sarebbe molto produttivo intervenire è il cuneo fiscale, cioè la differenza tra costo effettivo del lavoro e quanto rimane netto al lavoratore, che è notevolmente più alto della media degli altri paesi europei. Una sua riduzione a vantaggio della remunerazione dei lavoratori avrebbe l’effetto automatico di aumentare il potere d’acquisto e quindi, tenendo conto di quanto detto prima, i consumi.

Come ha fatto notare Andrea Giuricin su queste pagine, non è questo un punto che riguarda direttamente le imprese, che hanno invece un altro problema, la minore produttività. Il costo lordo totale del lavoro risulta sostanzialmente allineato, ma il costo per unità prodotta è più elevato rispetto ai principali concorrenti, riducendo la competitività delle nostre imprese. Se quindi si riuscisse a ridurre il cuneo fiscale, cosa di cui si parla da tempo senza risultati, occorre decidere se il risparmio debba andare al lavoratore, e quindi ai consumi, o a ridurre il costo lordo del lavoro, quindi alla competitività delle aziende.

La seconda scelta sarebbe sbagliata, anche come misura di emergenza, perché non risolverebbe il problema della produttività, lasciando intatto quello della diminuita domanda interna. Ulteriore prova della necessità di non continuare con la politica “del carciofo”, in cui ogni gruppo lavora pro domo sua, ma di avviare politiche che seguano almeno un minimo di visione strategica.

Sarebbe anche il caso di non trarre spunto da ogni evento per sterili polemiche partitiche, come francamente suonano le dichiarazioni di Renato Brunetta, con il suo applauso a Sangalli perché la sua linea “corrisponde punto per punto alle nostre priorità” e perché ha ribadito “soprattutto, la necessità di porre fine all’incertezza e alle dichiarazioni confuse degli esponenti dell’esecutivo e del Pd”. Per favore, Alfano informi Brunetta che il Pdl è nel governo, così non perdiamo tempo.

Sia Zanonato che Sangalli hanno messo in luce anche l’enorme costo della burocrazia e delle lungaggini amministrative, stimato dal ministro in 30 miliardi l’anno. Anche questa è una non notizia, a parte la cifra, ma aspettiamoci revisioni come per gli esodati o i debiti della Pa, né è una notizia la volontà del governo di “semplificare”.

Non uno dei problemi elencati da Sangalli è nato l’altro ieri, ma si è formato almeno nell’ultima decina di anni, talvolta ancora prima. C’è da chiedersi perché nessuno di essi sia stato avviato a soluzione, quando al governo c’era il Pdl, poi l’Ulivo, poi ancora il Pdl e poi i tecnici. Continuo ad apprezzare l’onesta prudenza di Zanonato.