L’articolo di Gianni Credit sulle banche Popolari quotate in Borsa contiene una serie di indicazioni molto interessanti e apre anche una serie di domande altrettanto interessanti. Credit prende spunto dalle osservazioni fatte sulle popolari dal Governatore della Banca d’Italia nelle sue Considerazioni finali, che ritiene dirette in particolare alla Popolare di Milano, la cui governance è periodicamente sotto accusa.

Una prima indicazione importante è la sottolineatura che Credit fa della rilevanza per il nostro sistema economico delle Popolari e del fatto che il sistema bancario non può essere esaurito solo da banche “organizzate come società di capitali, orientate al profitto e tendenzialmente quotate in Borsa.”, ma necessita anche di solide banche che operino in diretto rapporto con il loro territorio di pertinenza.

A tal proposito è interessante un articolo apparso su ResPublica a firma del parlamentare britannico Guy Opperman (l’originale è pubblicato nella sezione inglese de Il sussidiario), in cui si denuncia la concentrazione del sistema bancario britannico, dove sei banche detengono il 75% del mercato, e si sostiene la necessità di ridare vigore al sistema delle banche locali per stimolare la ripresa attraverso il credito soprattutto alle PMI.

Ed ecco anche le prime domande. Credit, alla pari di Opperman, cita come esempio virtuoso il sistema tedesco, con le sue “Volksbanken” a fianco delle “Raiffeisenbanken”. Tuttavia, mi pare che siano proprio queste banche che da anni rappresentano una spina nel fianco per la Germania che, non a caso, si è battuta per escluderle dai controlli dell’Ue. Vale a dire che, come non sempre “piccolo è bello”, il “locale” non è di per sé una garanzia esauriente.

Sono altrettanto condivisibili le perplessità di Credit sull’efficienza ed efficacia dimostrata dal “modello unico” di banca Spa quotata, ma anche qui la domanda è quanto su questa inefficienza abbia influito l’aver adottato il modello di banca universale renano, cioè tedesco, e la eliminazione della distinzione tra banche ordinarie e banche di investimento. Sarà bene ricordare che la cancellazione di questa separazione è alla radice dell’attuale catastrofica crisi.

Alle nostre banche va senza dubbio riconosciuto il merito di essersi tenute ai margini di questa disastrosa evoluzione. Tuttavia, anche da noi vi è stata qualche improvvida commistione, quale la sostanziale eliminazione dei mediocrediti e la “satellizzazione” delle società di gestione del risparmio, con la importazione delle sedicenti “muraglie cinesi” anglosassoni.

Ancora totalmente condivisibile la denuncia della incompatibilità tra Popolari e Borsa, ma il problema non sorge dalla richiesta di trasformazione in SpA, bensì dall’incompatibilità della struttura delle Popolari con i criteri costitutivi della Borsa: nessuno, infatti, si meraviglia dell’impossibilità per una società in nome collettivo di quotarsi in Borsa. Le Popolari che sono quotate, e dice Credit neppure per loro necessità, sono di fronte a una scelta, a mio parere, molto chiara: o decidono di rimanere in Borsa accettandone le regole e trasformandosi in SpA, oppure scelgono di rimanere fedeli alla struttura delle Popolari e chiedono il delisting. Tra l’altro, diminuendo il numero delle banche quotate si renderebbe un favore anche alla Borsa italiana, ritenuta troppo bancocentrica.

Rimarrebbe però aperta la domanda della adeguatezza del modello cooperativo per imprese di grandi dimensioni, problema che non riguarda solo le banche, si pensi solo allo scontro nella grande distribuzione tra Caprotti, con la sua Esselunga, e le Coop.

Personalmente, sono convinto che la formula cooperativa possa funzionare senza storture solo fino a certe dimensioni, cioè fino a quando è possibile mantenere una reale cooperazione, pur in misura più “allentata”, tra i soci. Altrimenti, la proprietà e la partecipazione collettiva diventano slogan pubblicitari, come appunto nel caso delle Coop.

Un caso significativo è dato dalla Popolare di Milano, praticamente dominata dai sindacati dei dipendenti, e la cui governance è periodicamente al centro di tensioni, come ricorda Credit. Qui non si tratta di demonizzare niente e nessuno, ma di cercare di delineare dei modelli che abbiano una coerenza interna: per esempio, nel caso della BPM, se lo statuto prevedesse che solo i dipendenti possono diventare soci, costoro potrebbero poi decidere se partecipare direttamente alle assemblee o farsi rappresentare da associazioni libere o dai sindacati interni. Invece, con la struttura attuale il conflitto di interessi più evidente è proprio tra dipendenti soci e i soci, per così dire, esterni.

Altre soluzioni posso essere trovate per cercare di mantenere una struttura che, se non proprio cooperativa, sia quantomeno in grado di coinvolgere un ampio numero di stakeholder, di portatori di interessi, i dipendenti, ma anche i depositanti e i clienti, per esempio. Consci che nessun modello potrà eliminare del tutto le asimmetrie, ma solo ridurle rispetto a quelle, pesanti, che contraddistinguono il mercato borsistico.

Un’ultima osservazione sulla grave vicenda Antonveneta che, dice Credit, trasformata in Spa, è stata regalata a forza all’Abn Amro e poi ricomprata a caro prezzo dal Montepaschi, la cui maggioranza, aggiungo io, era detenuta da una Fondazione bancaria in dispregio delle regole. E’una vicenda fondamentale per la storia del nostro sistema bancario, se solo si pensa alle conseguenze che ebbe su un centro nevralgico come la Banca d’Italia, e sarebbe interessante che Credit ne scrivesse più a fondo.

Una sola osservazione sul termine regalata: l’Opa di Abn Amro fu fatta a un prezzo superiore a quello offerto dalla cordata guidata dalla Banca Popolare Italiana di Fiorani, i famosi “furbetti del quartierino”. Gli olandesi pagarono la banca padovana 7 miliardi o giù di lì nel 2005; Mps la ricomprò nel 2007 per 9 miliardi.