Sta facendo molto rumore il rapporto della Commissione parlamentare inglese sul sistema bancario, apparso in questi giorni, che propone il carcere per i dirigenti di banca che si siano macchiati del reato di “colpevole condotta avventata”. Il rapporto suggerisce parecchie decine di interventi, ma il possibile carcere per i banchieri, insieme al differimento di dieci anni nel pagamento dei bonus e al loro possibile recupero, è la proposta che più richiama l’attenzione.
Alla domanda del leader laburista Ed Miliband se condividesse queste proposte della Commissione, presieduta da un parlamentare conservatore, David Cameron ha risposto che le condivideva in toto e che era sua intenzione inserirle nella proposta di legge sulla riforma del sistema bancario attualmente in discussione. E’ seguito uno scambio di accuse tra i due, con Miliband che, segnalando l’aumento del 64% nei bonus ai banchieri nell’ultimo anno, ha accusato Cameron di aver abbassato le imposte sui livelli più alti di reddito. Cameron ha replicato che ora i bonus sono un quinto rispetto al periodo in cui i laburisti erano al governo, accusandoli a sua volta di non aver introdotto nessun controllo efficace sulle banche.
A parte questa “normale” dialettica partitica, la maggioranza dei pareri nel mondo politico è favorevole, dati i numerosi scandali degli ultimi anni nel settore bancario e il pesante ricorso all’intervento pubblico per il salvataggio delle grandi banche, come i Lloyds e la Royal Bank of Scotland. La discussione è soprattutto viva per quest’ultima, di cui l’81% è ora dello Stato, in seguito all’intervento pubblico reso necessario dal collasso conseguente all’acquisto di Abn Amro. L’operazione, cioè, cui partecipò anche Santander, che però ricavò una grossa plusvalenza dalla quasi contemporanea rivendita dell’Antonveneta a Mps.
Queste proposte non sembrano, ovviamente, avere entusiasmato il mondo bancario, dal quale vengono critiche e perplessità a difesa dei propri interessi particolari, ma che in parte segnalano problemi più generali. Il punto più incerto nella proposta di nuovo reato è proprio il concetto di avventatezza o condotta azzardata, dato che i comportamenti esplicitamente illeciti sono già attualmente perseguibili.
L’attività finanziaria è per sua natura caratterizzata dall’assunzione del rischio, al livello del quale è collegata la remunerazione dell’operazione. Dato che la propensione al rischio è per sua natura variabile, rimane quindi non facile accertare in via generale quale sia il livello di rischio accettabile. D’altro canto, se si escludesse l’assunzione del rischio, l’attività finanziaria sarebbe impossibile, come lo sarebbe quella imprenditoriale nella “economia reale”.
Tuttavia, da più parti si fa presente che nessuno dei comportamenti di cattiva conduzione è stato mai sanzionato e al massimo si sono chieste le dimissioni dei responsabili, spesso però accompagnate da considerevoli buonuscite. Vi è quindi un certo scetticismo sulla reale intenzione di applicare sanzioni gravi come il carcere, pur in presenza di una forte richiesta di assunzione di responsabilità da parte dei manager bancari, anche per il bene dello stesso settore finanziario.
In realtà, ciò che emerge è la consapevolezza che gran parte della attuali crisi deriva dalla sciagurata eliminazione della separazione tra istituti di credito ordinario e banche d’affari e di investimento. È un’analisi fatta fin dall’inizio della crisi, ma che sembra non riuscire a concretizzarsi in decisioni operative. Negli Stati Uniti, primi sotto Clinton a prendere questa disastrosa decisione, Obama non è ancora riuscito a far passare la cosiddetta “Volcker rule”, diretta a ripristinare tale divisione, anzi sembrerebbe averci rinunciato. Questo ritorno alle origini permetterebbe di risolvere in gran parte il problema del corretto rapporto rischio/beneficio, che dovrebbe rimanere a livelli molto contenuti per le banche ordinarie, mentre in quelli di investimento sarebbero gli investitori, giocando i loro soldi, a decidere liberamente questo rapporto, godendone i risultati positivi e pagando di tasca propria quelli negativi, senza addossarli ai contribuenti.
Alcuni commentatori sottolineano inoltre che non si tratta solo di cattiva condotta dei top manager bancari, ma è un problema di sistema. Contemporaneamente al suddetto rapporto, sono usciti gli stress test fatti dalla Prudential Regulation Authority (un organo di controllo della banca centrale inglese) su otto grandi banche inglesi, dai quali risulta la necessità di ricapitalizzazione per circa 27 miliardi di sterline. Tra l’altro, un allarme simile è stato lanciato anche dalla banca centrale svizzera e la necessità di una maggiore capitalizzazione delle banche rispetto ai rischi che assumono è sentita praticamente in tutti i Paesi.
Un altro punto che viene costantemente rimesso in discussione è quello dei compensi troppo alti del settore, con la giustificazione di dover incentivare i “talenti”, cosa poco sostenibile visti i risultati. Per esempio, secondo The Independent, l’anno scorso alla Barclays 428 dipendenti hanno guadagnato un milione e più di sterline (circa 1,2 milioni di euro), nonostante i profitti prima delle imposte siano crollati da 5,9 miliardi nel 2011 a 246 milioni nel 2012. Il giornale fa anche presente che più della metà dei dipendenti della banca hanno invece guadagnato meno di 25.000 sterline. Sarebbe interessante un simile confronto anche per le nostre banche.
Infine, comincia a prendere piede l’idea che il problema non è quello di venire in soccorso, quasi sempre con soldi pubblici, di una banca “troppo grande per fallire”, ma di accettare l’idea che “una banca che è troppo grande per fallire, o per essere gestita, è anche una banca troppo grande per esistere”, come scrive sul Guardian Joris Luyendijk, che aggiunge che nella City si dice che gestire oggi una simile banca è come “giocare alla roulette russa con la testa di un altro”. Un gioco forse non limitato alla City di Londra.