Piazza Taksim a Istanbul come Piazza Tahrir al Cairo? Una nuova fiammata della ormai appassita Primavera Araba? Un parallelo attraente ma, nonostante alcune analogie, non così semplice.

In Egitto, la rivolta contro un regime militare autoritario e oppressivo si è manifestata in nome di due prospettive diverse: da un lato, l’evoluzione verso una più articolata democrazia, dall’altro verso una maggiore presenza istituzionale dell’islam. Abbattuto Mubarak, lo scontro è ora tra queste due opzioni, di cui la seconda si è dimostrata, con la presa di potere dei Fratelli Musulmani, per il momento la più forte. Sullo sfondo, rimane la presenza, forte ed inquietante, dei militari.

Il ruolo dei militari nella politica egiziana risale all’inizio degli anni ’50, quando il re Farouq fu detronizzato dal generale Naguib, che diventò il primo presidente della neonata repubblica, e dal colonnello Nasser, uomo forte del regime fino alla sua morte nel 1970. Il regime egiziano, autoritario come tutti quelli militari, anche prima di Mubarak, è uno dei diversi regimi nazionalisti laici, normalmente a guida militare, che si installarono in quegli anni in vari Paesi arabi, tra cui Iraq e, successivamente, Siria.

Il punto focale della lotta era allora l’indipendenza, connotando questi movimenti con un forte nazionalismo e sentimenti antioccidentali, che spesso portavano ad allinearsi con l’Unione Sovietica. Alcuni, come il Baath in Iraq e in Siria, avevano tratti socialisti e panarabi, ma senza connotati religiosi. Il Baath, infatti, fu fondato da sciiti, alawiti, sunniti, cristiani e non credenti.

Le primavere arabe si sono battute contro i regimi eredi di questi movimenti, di cui avevano perso, peraltro, ogni riferimento culturale per diventare solo strutture di potere. La divisione tra opposizione laica e islamista già citata, si è riflessa anche all’interno del movimento palestinese, nella contrapposizione, anche cruenta, tra un Fatah rimasto sostanzialmente laico, se non proprio socialista, e un Hamas islamizzato in senso fondamentalista.

La storia della Turchia moderna è diversa e origina dal crollo dell’impero ottomano dopo la Prima Guerra mondiale, con la successiva caduta del sultanato e proclamazione della repubblica. Il primo presidente fu Mustafa Kemal, detto Atatürk, il padre dei turchi, che disegnò uno Stato di tipo occidentale, o meglio francese, non solo laico ma con forti caratteristiche laiciste. Garante di questo tipo di Stato è, a norma della Costituzione, l’esercito che è intervenuto, in passato, per annullare l’esito di elezioni vinte da partiti islamici.

La situazione è cambiata dal 2002 con la vittoria alle elezioni, poi confermata successivamente, del partito moderato islamico guidato da Recep Tayyip Erdogan. Da allora è iniziato un graduale processo di allontanamento dallo schema di Atatürk, limitando il potere dei militari e islamizzando, sia pure in modo accorto, molti aspetti istituzionali e culturali del Paese.

I recenti disordini, al di là dell’immediato casus belli, sembrano originare proprio dalla insoddisfazione di una parte dei turchi verso questo progressivo rientro dell’islam nella vita sociale e istituzionale, come risulta anche dalla intervista a Selin Sanli. Questo si aggiunge agli altri connotati non democratici del governo di Erdogan, come la scarsa tolleranza verso le minoranze e la limitazione della libertà di parola, dimostrata dall’alto numero di giornalisti incarcerati.

Qui il caso egiziano e quello turco confluiscono, perché anche in Egitto le stesse accuse vengono rivolte al governo da quella parte laica, il che non significa necessariamente antireligiosa, che non si riconosce in uno Stato di tipo confessionale come quello che va proponendo la Fratellanza Musulmana. 

Questa evoluzione interna ha nettamente influenzato le politiche estere dei due Paesi, a partire dai rapporti con Israele. L’Egitto era il solo Stato arabo, insieme alla Giordania ad avere firmato un trattato di pace con Israele, ma dall’avvento al potere dei Fratelli Musulmani le relazioni si sono decisamente deteriorate e vi è chi propone di denunciare il trattato. La Turchia era l’unico alleato di Israele nell’area, con cui venivano perfino svolte esercitazioni militari congiunte, entrambi avamposti dell’Occidente verso i pericoli provenienti da Est. Ora i due Paesi si guardano in cagnesco.

Tutto ciò sta mettendo in difficoltà gli Stati Uniti e tutta la loro politica nell’area. Le aperture di Obama nei confronti del mondo arabo, si veda il discorso del giugno 2009 al Cairo, non hanno ricevuto grandi riscontri, ma hanno raffreddato i rapporti con l’alleato israeliano. L’altro alleato, la Turchia, sembra deciso a muoversi per conto proprio, al di là delle dichiarazioni di facciata, e a continuare la propria strategia di predominio sull’area.

Se Erdogan manterrà la sua decisione di visitare questo mese Gaza e di aprire colloqui con Hamas, si aprirà una crisi sia con gli Usa che con l’UE, visto che entrambi considerano Hamas un’organizzazione terroristica. E si amplierà la spaccatura non solo con Israele, ma anche con l’Autorità palestinese, allontanando ulteriormente ogni soluzione pacifica, già ora così incerta.  
Inoltre, questa volontà della Turchia di porsi come superpotenza regionale e leader delle comunità sunnite non potrà non entrare prima o poi in rotta di collisione con l’Arabia Saudita; dall’altro lato, spingerà ancor di più l’Iran a porsi come protettore delle minoranze sciite, a partire dalla Siria e dal Libano. Sotto questo profilo, dopo la rottura tra Hamas e Hezbollah, i recenti scontri tra Hezbollah e ribelli siriani sono pericolosi segnali in tal senso.

Sono quindi diversi gli assi che si intrecciano in questa complicata situazione: vi è quello religioso, con la sempre più estesa contrapposizione tra sunniti e sciiti, vi è quella etnico – linguistico tra arabi, turchi, curdi e iraniani indoeuropei, e infine gli aspetti geopolitici, che vedono contrapposti Arabia Saudita, Turchia e Iran, con Iraq e Siria trasformati in campi di battaglia tra le varie potenze.
Sullo sfondo, troviamo Cina e Russia schierate dietro gli sciiti e l’Occidente… già l’Occidente con chi è schierato? Forse con i sunniti, ma senza esagerare. Senza dubbio, è del tutto assente nei confronti dei primi soggetti che dovrebbe proteggere, i cristiani, che da popolazione autoctona di tutti questi Paesi, fondamento della loro civiltà, sono ormai considerati stranieri da buttare fuori o, al massimo, cittadini di serie B, dhimmi da proteggere in attesa della loro conversione.
Infine, un’ultima domanda: come cambierebbe la tragica situazione della regione se vincesse l’anima più vera di Piazza Tahrir e Piazza Taksim? Non lo so, ma varrebbe comunque la pena di provare ad aiutarli davvero.