La vicenda giudiziaria di Saipem è tornata alla ribalta con la notizia dell’arresto di Pietro Varone, ex direttore dell’area engineering e construction della società, avvenuta peraltro alla fine dello scorso mese. In contemporanea, la Procura di Milano ha chiesto il sequestro di ingenti somme in diversi conti internazionali riconducibili a Farid Bedjaoui, considerato l’intermediario della Saipem in Algeria, nei confronti del quale è stato anche emesso un mandato di cattura internazionale. Nell’inchiesta per corruzione internazionale sono anche coinvolti i vertici di Saipem e l’amministratore delegato di Eni, Paolo Scaroni.

L’accusa è di aver pagato una tangente di 197 milioni di dollari, il 2,5% del valore di sette contratti di appalto di 8 miliardi di euro, di cui 10 milioni sarebbero tornati in Italia a favore di Varone, da cui il suo arresto. Il teorema che si sta preparando nei confronti di Scaroni è quello del “non poteva non sapere”, visto che secondo notizie di cronaca la Procura parlerebbe di ““contesto che ha favorito l’adozione di comportamenti devianti“.

E qui si torna al problema di fondo, cioè alla prassi consolidata delle tangenti in certi settori e Paesi, considerata inevitabile per potervi operare. Non a caso, proprio di recente la Svizzera ha ammesso la “liceità” di tali comportamenti quando sia dimostrata la loro indispensabilità per ottenere il lavoro, prevedendone addirittura la deducibilità fiscale. Secondo questo approccio, il colpevole è il corrotto, non il corruttore costretto a corrompere.

Sembrerebbe uno scontro tra il pragmatismo disinvolto degli “gnomi” svizzeri e il rigore giuridico degli altri Paesi, tra il privilegiare le proprie imprese e l’affermazione del diritto a tutti i costi. Difficile trovare un compromesso che non sia ipocrita, vale a dire, chiudere un occhio fintanto che vengano rispettate almeno alcune regole o limiti, oltre i quali far scattare le inchieste. L’alternativa è un accordo totalitario a livello internazionale per combattere il fenomeno, mettendo così tutti sullo stesso piano per evitare che diverse legislazioni e azioni della magistratura diventino un elemento distorsivo che premierebbe solo i disonesti.

Difficile che questo accordo possa essere raggiunto, anche perché gli Stati e i governi agiscono sia dal lato dei corruttori che da quello dei corrotti. La Saipem è controllata dall’Eni, il cui socio di riferimento è lo Stato, e dalla parte dei presunti corrotti è coinvolto l’ex ministro algerino dell’Energia, Chekib Khelil, che si dice molto legato al Presidente Bouteflika.

Questi eventi, per loro natura, coinvolgono non solo imprese, per quanto importanti, ma gli Stati stessi e i rapporti tra di loro, richiedendo quindi particolare cautela da parte della magistratura, per evitare strumentalizzazioni a livello politico ed economico. A quanto riportano le notizie di cronaca, una delle accuse fatte a Scaroni è di aver partecipato a incontri con Khelil, insieme a qualcuno degli indagati. A meno che i giudici abbiano inconfutabili prove dei loro scopi criminosi, quegli incontri non dovrebbero essere neppure citati, perché è istituzionale che l’ad di Eni si incontri con il ministro dell’Energia di un Paese così importante per noi come l’Algeria.

A conferma che questi incontri hanno una normale valenza operativa, qualche giorno prima dell’emissione dei mandati di arresto, Scaroni si è incontrato con Youcef Yousfi, che ha sostituito nel 2010 ( i fatti imputati sono avvenuti tra il 2007 e il 2010) Khelil come ministro. Tema dell’incontro erano l’analisi delle attività attuali dell’Eni in Algeria e i possibili sviluppi della collaborazione, tra cui l’esplorazione delle possibilità offerte dallo shale gas, una delle nuove frontiere energetiche. Qualche tempo prima, Yousfi aveva difeso in una conferenza stampa le società algerine, in primo luogo Sonatrach, affermando che non tutti in Algeria erano corrotti.

La magistratura continuerà, ovviamente, la sua giusta attività, mi auguro con tutta la prudenza che il caso richiede, per evitare inutili e dannosi “casi mediatici”, ma credo che qualcosa dovremmo sentire anche dal governo, per esempio su quale è lo stato del progetto Galsi, il gasdotto dall’Algeria alla Sicilia, cui in parte si riferiscono le presunte tangenti, e per il quale c’è il rischio di blocco se non di cancellazione.

Saipem non è l’unica impresa strategica al centro di vicende giudiziarie, basti pensare a Finmeccanica, e sempre più spesso si legge della possibilità che la partecipazione pubblica in queste società venga venduta per ridurre il debito pubblico. Ciò sarebbe un danno per il Paese, ma sarebbe criminale se oltretutto il governo assistesse indifferente al loro deprezzamento.