Le ultime dichiarazioni di Barack Obama su una azione militare contro Bashar Assad possono essere interpretate in modi diversi. Fino a ieri sera, la posizione del presidente americano sembrava, se non decisa, quanto meno orientata a sferrare in tempi brevi un attacco contro il regime siriano, sia pure concentrato su obiettivi limitati e con l’esclusione di forze di terra.

Secondo Obama, l’intervento non avrebbe avuto lo scopo di abbattere il regime siriano, ma carattere punitivo nei confronti di Assad per aver usato armi chimiche ed aver, quindi, superato la “linea rossa” stabilita dallo stesso Obama l’anno scorso. Posizione apparsa a molti un po’ ipocrita, perché di fatto questo intervento avrebbe aiutato i ribelli; e anche astratta, dato che lo stesso Obama mostrava chiaramente di non avere idee molto chiare sui reali obiettivi dell’azione militare.

L’attacco sarebbe avvenuto certamente senza copertura Onu, data la netta opposizione di Russia e Cina, da qui il raffreddamento di diversi alleati europei, ma Obama poteva confidare sul sostegno, apparentemente molto deciso, di Regno Unito e Francia. Una situazione, cioè, simile a quella dell’intervento in Libia, anche se lì l’obiettivo era di abbattere Gheddafi, come poi avvenne.

Come allora, anche questa volta Obama non intendeva chiedere l’autorizzazione al Congresso, nonostante le critiche, soprattutto dall’opposizione Repubblicana, ma non solo, dato che la Costituzione prevede che solo il Congresso possa votare una dichiarazione di guerra. Al Presidente è data libertà d’azione in caso di pericolo immediato di aggressione al Paese, in una situazione cioè che non consenta l’esplicazione della procedura prevista dalla Costituzione. Chiaramente non il caso della Libia e neppure della Siria. Allora Obama si era difeso dicendo che non si trattava di una guerra, ma di un intervento militare limitato, senza impiego di truppe sul terreno, e sembrava deciso a seguire adesso la stessa prassi.

Cosa ha fatto cambiare idea ieri sera a Obama, spingendolo invece a passare per il voto del Congresso? Come già detto, le ragioni possono essere diverse e sovrapponibili tra loro. Alcune le ha citate lo stesso Obama, come la stanchezza degli americani per questi lunghi anni di guerra in Iraq e Afghanistan, o il fatto che il passaggio in Congresso averebbe dato una copertura più comunitaria all’iniziativa, vista negativamente da molti americani, compresi alti esponenti del Pentagono.

Il voto contrario del Parlamento britannico all’intervento in Siria ha senza dubbio tolto un prezioso alleato ad Obama, rimasto solo con l’appoggio di un bellicoso Hollande, memore probabilmente della antica influenza francese su Siria e Libano e pronto ad approfittare del forzato ritiro dell’alleato/concorrente Cameron. 

Inoltre, la certezza che i gas nervini siano stati usati dal regime e non da qualche frangia dei ribelli, non è così ampiamente condivisa e da più parti si chiede di attendere gli esiti dell’ispezione dell’Onu.

Infine, un motivo non ultimo può essere quello di salvare la propria faccia. Obama ha definito inevitabile un’azione militare contro il regime siriano, sottolineando la responsabilità morale della eventuale inazione: “Ecco la mia domanda ad ogni membro del Congresso e a ogni membro della comunità globale: quale messaggio manderemmo se un dittatore può gasare centinai di bambini uccidendoli sotto gli occhi di tutti senza pagare alcun prezzo?”

Come si vede un bel “carico” morale sulle spalle dei deputati e senatori americani, ma nonostante i toni, sembra non si sia spinto a dire che procederà all’azione anche con un voto contrario del Congresso. Né è probabile che lo faccia: se il Congresso dà via libera, interverrà in Siria con il beneplacito dell’intera nazione, se lo negherà, potrà sempre dire che gli è stato impedito e che la responsabilità non è sua.

Il Congresso, tuttavia, non si riunirà prima del 9 settembre ed è quindi improbabile alcuna decisione prima di almeno una decina di giorni, una moratoria non breve che, comunque, indebolisce Obama. Questi giorni possono essere utilizzati per accelerare un lavoro diplomatico che finora poco ha reso, ma che rimane l’unica possibilità per por fine al massacro. Un ruolo fondamentale nella vicenda è quello della Russia, ma proprio in questo momento i rapporti tra Usa e Russia non sono dei migliori, anche per il caso Snowden, e sono molto freddi quelli personali tra Obama e Putin.

Eppure, un approccio realistico dovrebbe spingere Obama a un importante, seppur difficile, lavoro personale proprio con Putin, accettando il fatto che senza un qualche tipo di accordo con la Russia sarà difficile trovare una soluzione non disastrosa per la tragedia siriana e per tutto il Medio Oriente. Se Obama riuscisse ad avviare un lavoro di questo tipo, verrebbe comunque fuori bene anche in caso di un voto negativo del Congresso.

La moratoria avrà comunque conseguenze dirette sul terreno, con un indebolimento dello schieramento ribelle, che sperava in un intervento “a caldo”, e con un danno soprattutto per le componenti meno estremiste e meno antioccidentali. Più difficile ipotizzare le reazioni del governo siriano, a parte quelle propagandistiche. Anche sul terreno, una convergenza diplomatica tra Usa e Russia potrebbe essere importante, agendo sui propri alleati nella regione e poi su ribelli e governativi. La moratoria in attesa del voto del Congresso potrebbe diventare una sorta di cessate il fuoco sul terreno, dando almeno un po’ di sollievo a quella povera popolazione martoriata.

Obama e Putin hanno qui la loro grande occasione; che Dio li illumini.