L’ultimo numero di The Economist ha dedicato la copertina e una serie di articoli agli effetti dell’innovazione, o meglio della tecnologia, sul lavoro e sull’occupazione. Il settimanale inglese ripercorre la storia dei cambiamenti apportati dalla innovazione tecnologica nei modelli di impresa e dei conseguenti effetti sul lavoro e i lavoratori. L’analisi si concentra sul mondo occidentale, dove il cambiamento più rilevante è dato dalla progressiva perdita di importanza del fattore “terra” come datore di lavoro, ora ridotto ai minimi termini, a favore prima dell’industria e poi dei servizi, attualmente il settore che offre la maggiore occupazione.
L’oggetto dell’indagine è ben delineato dai titoli degli articoli: “ The future of the jobs” (Il futuro dell’occupazione) e “Technology and jobs” (Tecnologia e occupazione). Ancor più eloquenti i sottotitoli, rispettivamente: “I precedenti periodi di innovazione tecnologica hanno sempre prodotto, sul lungo periodo, maggiore e non minore occupazione. Ma le cose possono cambiare” e “Gli effetti della tecnologia di oggi sull’occupazione di domani saranno enormi – e nessun Paese è preparato”.
L’analisi del passato, in particolare della ottocentesca Rivoluzione industriale, porta alla conclusione che, dopo un periodo più o meno lungo in cui si restringe l’occupazione, peggiorano le condizioni dei lavoratori e il divario tra le classi aumenta pericolosamente, l’innovazione tecnologica porta a una occupazione maggiore di quella iniziale e il benessere generale aumenta notevolmente. Conseguenza inevitabile è il cambiamento radicale nella struttura del lavoro, con la sparizione totale di alcuni mestieri, il ridimensionamento di altri e l’esplosione di nuovi tipi di lavoro.
È ciò che potrebbe succedere anche in quest’epoca, dove l’innovazione tecnologica sta sempre più accelerando. Tuttavia, come risulta dai sottotitoli, gli autori degli articoli manifestano una certa preoccupazione. In effetti, uno dei punti di partenza è il recente studio di un gruppo di accademici di Oxford in cui si prevede che il 47% dei lavori attuali sarà automatizzato nei prossimi vent’anni. Se ciò si avverasse, sarebbe difficile evitare un forte calo nei livelli occupazionali, calo che potrebbe non essere transitorio.
Il tasso di disoccupazione in molti paesi è già notevolmente aumentato per la crisi in corso, che sta colpendo particolarmente la classe media, che nelle società occidentali rappresenta il risultato dell’espansione del lavoro prodotta nel lungo termine dall’innovazione tecnologica. Proprio la classe media ha più da soffrire dalla divaricazione del mercato del lavoro tra uno sottile strato di lavoratori avvantaggiata dall’innovazione e la massa impiegata in lavori a basso contenuto, peraltro più facilmente automatizzabili.
Come detto, l’innovazione ha effetti negativi immediati sull’occupazione, difficilmente rimpiazzabili a breve da nuovi lavori. A questo proposito, colpiscono i dati riportati da The Economist riguardo a Instagram, la azienda altamente tecnologica venduta nel 2012 a Facebook per circa un miliardo di dollari, e alla Kodak, grande azienda del passato, ora avviata alla procedura fallimentare:13 impiegati la prima, contro i 145.000 della seconda ai tempi del suo successo.
L’innovazione non è solo tecnologia, è anche creatività, capacità di gestione, cioè capacità umane più difficilmente sostituibili da invenzione tecnologiche, sebbene negli articoli si prospetti un’evoluzione preoccupante sotto questo profilo. Per il momento, lo studio di Oxford vede come meno vulnerabili questi tipi di lavori, più impregnati di aspetti “emotivi”, un mondo, dice The Economist, di “artisti e terapisti, di consiglieri in materie di cuore e di istruttori di joga”.
Secondo la rivista inglese, se solo la metà di queste previsioni si verificassero ci troveremmo di fronte a un mondo completamente diverso, nel quale arriveremmo attraverso tensioni molto forti, con fratture insanabili nelle nostre società e nel resto del mondo. Infatti, gli effetti di questo scenario sarebbero ugualmente gravi per i paesi emergenti e sottosviluppati, la cui mano d’opera a buon mercato rappresenta ora un sostituto alla innovazione tecnologica.
Quanto alle soluzioni, The Economist esclude la validità di rivolte come quella luddista che, all’inizio del 1800, cercò di impedire l’introduzione del telaio meccanico, o la chiusura autarchica alla innovazione, comunque disastrosa in un’economia globalizzata. Rimane solo la via dell’educazione, un’educazione a sua volta, e sempre più, influenzata dall’innovazione tecnologica e che dovrà essere profondamente ripensata rispetto alle modalità attuali.
La flessibilità e la capacità di affrontare situazioni non previste e non riconducibili a routine o schemi predisposti rimane la caratteristica umana più difficilmente riproducibile dalla tecnologia: la coltivazione di questa capacità dovrà essere sempre più l’obiettivo dell’educazione, che non potrà che essere permanente.
Più che una soluzione, sembra una linea di difesa che può salvare almeno in parte il nostro futuro, ma il dibattito in corso nel nostro Paese, e non solo, non pare essere del tutto cosciente di questi problemi. Né sembra esserlo la classe politica, così conclude The Economist.