Nel precedente articolo sul servizio di The Economist circa i rischi posti all’occupazione dall’innovazione tecnologica mettevo in luce il sottofondo pessimistico dell’analisi condotta dal settimanale inglese. In effetti, la previsione che circa il 47% dei lavori attuali sarà sostituito da marchingegni tecnologici nel giro di vent’anni, secondo uno studio dell’Università di Oxford, sembra mettere in dubbio la probabilità che si verifichino ancora i notevoli progressi assicurati in passato dalla tecnologia.

D’altro canto, appare impossibile rinunciare all’innovazione tecnologica, che è anzi costantemente richiesta per aumentare la produttività e facilitare così l’uscita dall’attuale crisi. Suonerebbe poi un po’ paradossale ritornare a considerare la tecnologia una calamità da allontanare, come all’inizio della Rivoluzione industriale, anche se The Economist ricorda che “L’innovazione, elisir del progresso, ha sempre fatto perdere posti di lavoro alle persone”. In passato ciò è avvenuto solo per un certo periodo, cui poi è seguito un incremento della occupazione e una ridistribuzione del reddito a favore del lavoro. Ma proprio sul ripetersi di questo processo sorgono ora dubbi.

Molto opportuno appare, perciò, l’invito a governi e politici a occuparsi della questione al più presto e con una visone strategica. Non si tratta solo di prevedere strumenti per limitare il calo dell’occupazione, magari aumentando artatamente i posti di lavoro, magari nella Pubblica amministrazione, ma di riconsiderare a fondo il ruolo dell’innovazione tecnologica nel prossimo e meno prossimo futuro.

Un primo punto riproposto dall’analisi riguarda una revisione radicale della concezione del lavoro e delle sue regole, dibattito particolarmente difficile in Italia, dove si tende tuttora a ragionare per posti di lavoro fissi, considerando il lavoro una variabile indipendente, salvaguardata dall’essere posto nella definizione costituzionale della stessa nostra Repubblica.

The Economist fa presente che all’inizio del secolo scorso il “computer” era un lavoratore, o un gruppo di lavoratori, che facevano gli stessi calcoli matematici a mano, o successivamente con calcolatrici. Si può aggiungere che vi erano anche sale piene di segretarie che battevano a macchina, in un numero considerevole di copie, tutto ciò che ora ciascuno di noi fa personalmente al computer, inviandole via mail in tempo reale a quante persone vuole. Secondo gli analisti, le trasformazioni derivanti dalle future innovazioni tecnologiche saranno enormemente più drammatiche, mentre noi siamo ancora qui ad affrontare il digital divide, sia quello generazionale, sia quello che separa i cosiddetti paesi sviluppati dagli altri.

Interessante anche la citazione di John Maynard Keynes, che già negli anni ‘30 parlava di “una nuova malattia”, cioè “la disoccupazione tecnologica… derivante dalla scoperta di mezzi per risparmiare sull’uso della forza lavoro che superano la velocità con cui si riesce a trovare nuovi impieghi dei lavoratori”. Keynes prevedeva anche che un secolo dopo il mondo sarebbe stato più ricco, previsione in gran parte avveratasi secondo The Economist, e che la settimana lavorativa sarebbe diventata di 15 ore.

A questo non siamo ancora arrivati, ma la settimana di 40 ore è considerata un limite massimo nelle nostre società, almeno sindacalmente, ben lontani dalle 60 e più ore della Rivoluzione industriale, che facevano cantare ai padroni dalle mondine : “Se otto ore vi sembran poche, provate voi a lavorar”. Per la verità, i lavoratori in proprio e i lavoratori che, secondo lo studio, sono meno vulnerabili dal progresso tecnologico, lavorano ormai senza orario, anche aiutati proprio dalla tecnologia. Né è da dimenticare che i ritmi di lavoro che ora ci paiono “schiavisti” sono ancora usuali nei paesi “emergenti”, grazie ai quali paghiamo molto meno una serie sempre più ampia di prodotti. La conseguenza, già in atto ricorda The Economist, è che una larga parte di lavoratori in Occidente si trova minacciata su un lato dall’innovazione tecnologica e sull’altro dal lavoro a buon mercato di questi paesi.

Queste analisi pongono in evidenza la sempre maggiore diseguaglianza nella distribuzione della ricchezza e la divaricazione tra i molto ricchi e i molto poveri, con la sostanziale progressiva riduzione delle classi medie. Negli Stati Uniti, la parte di reddito percepito dall’1% più ricco della popolazione era il 9% negli anni ‘70, ora è il 22%. L’innovazione tecnologica, come visto, sostituisce i lavoratori con “macchine” e trasferisce così ricchezza dal lavoro al capitale, come sosteneva Marx, anche se ora i nuovi capitalisti possono venire decisamente dal basso, magari anche da un garage, e in tempi molto più rapidi di quelli di un tempo.

Chi conduce il gioco, comunque, rimane la finanza, sia che giochi con derivati e prodotti tossici, sia che investa in innovazione tecnologica. Avevano ragione i comunisti, allora? Dall’esito del comunismo applicato si direbbe di no, né la loro “società ugualitaria” era reale, come ben noto a chi abbia visitato quei paesi non da turista opportunamente “guidato” e come ben descritto da Orwell nella sua “Fattoria degli animali”, e come ampiamente dimostrato dalle attuali oligarchie in Russia.

Come già detto nel precedente articolo, The Economist non dà soluzioni, a parte la giusta insistenza sul sempre più fondamentale ruolo della educazione, e invita i politici a trovarne, ma credo evidente come vi sia materiale di riflessione non solo per costoro. Sempre che non si voglia prendere la scorciatoia delle demonizzazioni, della finanza, della tecnologia, dei governi, dei capitalisti avidi, dei lavoratori fannulloni e via dicendo, a seconda dei propri particolari interessi.