L’altro giorno sono apparsi due commenti dedicati alla situazione italiana sulla Reuters e sul Financial Times. Il primo, intitolato “L’Italia non ha nessun buon piano B”, è stato ripreso anche dal New York Times con un titolo ancor più apocalittico “Il futuro dell’Europa dipende dal successo dell’Italia”. Il punto centrale dell’articolo di Hugo Dixon è che o Matteo Renzi riesce nella sua politica riformista o per l’Italia non vi sono alternative, e un suo crollo sarebbe letale per l’intera Europa, portando quantomeno alla fine dell’Eurozona. Continuare la politica di austerità porterebbe a ulteriore recessione, aumento del rapporto debito/Pil, vista la difficoltà a tagliare la spesa pubblica, perdita di credibilità e maggiori difficoltà a piazzare i nostri titoli. Una patrimoniale una tantum potrebbe dare buone entrate, ma la ricchezza degli italiani è concentrata nell’immobiliare e, dice Dixon, “non si possono pagare le imposte con il secondo bagno della propria casa”.
Anche nel secondo articolo, firmato da Roma da James Politi, si ritrova una cauta fiducia nelle iniziative di Renzi, ma l’attenzione è qui centrata in particolare sulla riforma della giustizia, riportando dati già noti ma che fa sempre una certa impressione leggere. Da un rapporto della Banca Mondiale risulta che in Italia sono necessari 1185 giorni per rendere esecutivo un contratto di fronte alla nostra magistratura, contro i 529 giorni dei Paesi Ocse con noi confrontabili. E le vertenze non ancora risolte ammontano a più di 5 milioni, alcune risalenti perfino agli anni ‘90.
Insieme a tutte le altre cause ben note, la mancata certezza del diritto, la farraginosità delle leggi e l’inefficienza della giustizia sono la ragione della scarsa capacità dell’Italia di attrarre investimenti stranieri, e di mantenere quelli nazionali, verrebbe da aggiungere. Lo sforzo di riforma del Governo viene ben accolto, anche se con qualche scetticismo, viste le grosse resistenze delle varie “caste”, in questo caso magistrati e avvocati.
Il giornalista del Financial Times sottolinea, per esempio, le reazioni dei giudici alla riduzione delle loro ferie o all’introduzione di una qualche responsabilità civile. Le misure per rendere più efficienti i nostri tribunali sono doverose, ma il problema sembra essere più profondo e riguarda il modo in cui opera la magistratura, in particolare quella inquirente. Ne sono una pesante dimostrazione i processi Finmeccanica.
Qualche giorno fa, il tribunale di Busto Arsizio ha condannato in prima istanza Giuseppe Orsi, ex presidente e ad di Finmeccanica, e Bruno Spagnolini, ex ad di Agusta Westland, a due anni (pena sospesa) per false fatturazioni. I titoli dei maggiori organi di stampa hanno dato risalto alla condanna, ma la notizia fondamentale è che entrambi sono stati assolti dall’accusa di corruzione internazionale, perché non sussiste il fatto.
Come forse si ricorderà, nel febbraio 2013 Orsi era stato arrestato con l’accusa di aver pagato una tangente per favorire Augusta Westland nella gara bandita dal Governo indiano per l’acquisto di 12 elicotteri. Si era così creato un problema al vertice di Finmeccanica, messo in grave imbarazzo il Governo di Nuova Dehli (rendendo più difficili le trattative per i nostri due marò), gli elicotteri erano finiti ai concorrenti francesi e Finmeccanica esclusa da ogni gara in India.
Ora la magistratura giudicante afferma che “il fatto non sussiste” ed è impossibile non essere d’accordo con Orsi, come riporta il Giornale.it: “Credo che in nessuna parte del mondo si sognino di mettere in galera il presidente della più importante industria del Paese se non si hanno motivazioni più che provate. E quindi è molto difficile capire dall’estero che uno possa essere messo in galera senza un processo”.
Aspetto collaterale, ma “eccitante” mediaticamente, era la concomitante accusa a Orsi di aver passato soldi alla Lega per favorire la sua nomina al vertice di Finmeccanica, accusa fatta poi cadere dalla stessa procura per mancanza di prove. Così, si è decapitata una delle nostre maggiori imprese operante in un settore delicato come la difesa. Per la seconda volta. Sì, perché sarà bene ricordare che Giuseppe Orsi è subentrato nel 2011 a Pierfrancesco Guarguaglini, rimosso dalle sue cariche per l’accusa della Procura di Roma di frode fiscale e falsa fatturazione. L’inchiesta è stata archiviata nel 2012 dalla stessa Procura.
Certo, qualche mattone lo hanno portato anche i dissidi tra i due manager, che ricordano i capponi di Renzo, ma ciò non toglie nulla al discorso di fondo. Data l’importanza internazionale di Finmeccanica e il coinvolgimento nella vicenda degli elicotteri Agusta del comandante dell’aeronautica indiana, il danno non solo alla società ma all’immagine dell’Italia è gravissimo. In fondo, che il rischio di corruzione esista nelle gare, nazionali e internazionali, è dato per scontato, ma lo è molto meno che un Paese riesca a procurarsi così gravi danni per l’attivismo, chiamiamolo così, di una magistratura per molti altri versi quanto meno lenta.
Non c’è perciò molto da obiettare alle critiche di Reuters e Financial Times, anche se sorge qualche altro dubbio. Pur non essendo particolarmente pronto a sospetti complottistici, non posso esimermi dal notare che, accanto alle inchieste Finmeccanica, sono in corso quelle che riguardano l’Eni per i contratti petroliferi in Nigeria, quelle sulla controllata Saipem per le commesse in Algeria, e che la magistratura ha avuto un forte ruolo nella vicenda Ilva.
Per tutte queste aziende si parla di possibile vendita, in tutto o in parte, con intervento di compratori dall’estero. Difficile che tutte queste inchieste, la loro durata e i loro, bizzarri, esiti, aumentino il loro prezzo di vendita. Non sarà un complotto, ma forse è il caso di fare più attenzione.