Ufficialmente non è ancora in vendita, ma già si affacciano potenziali acquirenti: parliamo della Saipem, società specializzata nelle infrastrutture petrolifere, dalla ricerca dei giacimenti, alla perforazione, alla costruzione di oleodotti. Saipem, quotata in Borsa e di proprietà al 43% di Eni, è considerata un’eccellenza nel settore e non ha mai avuto problemi a lavorare per i concorrenti del suo socio di controllo. Il management Eni ha espresso l’intenzione di porre in vendita la società, anche se i tempi non sono stati stabiliti, e i pretendenti si sono fatti avanti. Oltre la Cassa depositi e prestiti, citazione ormai automatica in questi casi, hanno manifestato il proprio interesse i cinesi e, l’altro giorno, Igor Sechin, capo di Rosneft, che in un’intervista a Il Sole 24 Ore si è dichiarato interessato ad alleanze con Saipem e a una possibile partecipazione, qualora venisse messa in vendita.

Rosneft è il maggior produttore di petrolio al mondo, controllata al 70% dallo Stato russo ma partecipata al 20% da British Petroleum, ed è presente in Italia con partecipazioni nella Saras, raffinatrice di petrolio di proprietà della famiglia Moratti, e nella Pirelli di Marco Tronchetti Provera, con cui ha joint venture anche in Russia.

La possibile vendita di Saipem pone diversi punti critici, sia sotto il profilo aziendale, sia dal punto di vista politico e geopolitico. Circa il primo punto, credo sia pienamente condivisibile quanto scritto lo scorso agosto da Paolo Annoni su queste pagine circa il pericolo di svendere un’azienda di eccellenza in un settore nevralgico, con ricadute negative su tutto il Paese. Le motivazioni addotte per l’eventuale dismissione parlano di una Saipem non più strategica per Eni, citando l’assenza di società simili negli altri grandi gruppi petroliferi, come ribadito recentemente anche da esponenti governativi. Vale a dire che il possesso di un’eccellenza come Saipem non sarebbe un plus, ma addirittura un ostacolo alla valorizzazione di Eni. In realtà, la vera motivazione della vendita sarebbe la riduzione del consistente debito della capogruppo.

Si inserisce qui la questione della politica nazionale, altrettanto preoccupata di ridurre l’imponente debito pubblico, anche con la vendita di ulteriori quote delle aziende partecipate dallo Stato, tra cui appunto Eni. La vendita di Saipem porterebbe denaro fresco nella casse del gruppo petrolifero e quindi dello Stato. È una politica miope, non solo strategicamente, ma anche per quanto riguarda il debito pubblico, come evidenziato in vari articoli sul Sussidiario.

Se continuiamo a liquidare la nostra struttura industriale, di cosa vivremo in futuro, del Festival di Sanremo? È vero che le famiglie in difficoltà devono vendere l’oro di famiglia, ma se il capofamiglia fa l’orafo, una volta venduto l’oro, con che vivrà la famiglia? L’archetipo cui sembrano riferirsi i nostri politici è Tafazzi, ma un Tafazzi che le randellate le dà sui genitali degli altri.

L’apparire sulla scena di cinesi e russi porta dritti nello scenario geopolitico, in cui è in atto uno scontro tra Usa e Russia, con la Cina che cerca di trarre il massimo vantaggio dalla discutibile strategia americana e l’Europa campo di battaglia. L’Italia continua a essere un Paese-cerniera, tra Ovest e Est, tra Nord e Sud, ma incapace di trarne vantaggio, anzi. Le sanzioni contro la Russia stanno procurando più problemi a noi che ad altri paesi europei e, una volta tanto, qui potremmo trovare un terreno di azione comune con la Germania, che ha molti interessi in e con la Russia.

Questi interessi sono notevoli anche nel settore energetico, tanto che il Cancelliere socialdemocratico Gerhard Schröder, pochi mesi dopo la fine del suo mandato, è diventato capo di North Stream, società al 51% della russa Gazprom, che ha costruito e gestisce il gasdotto che porta il gas russo in Germania. Per inciso, alla costruzione hanno partecipato anche Saipem e Snamprogetti.

Mauro Bottarelli ha ben descritto la battaglia in corso con gas e petrolio ritornati armi di distruzioni di massa, e non solo a livello economico, visto che il commercio del petrolio permette all’Isis di autofinanziare largamente le sue nefande imprese. Gli Stati Uniti, accanto al solito ruolo di manovratori, ora agiscono come potenza petrolifera in proprio, grazie alla rilevante produzione di petrolio e gas da scisto.

Questa nuova politica americana tende a portare a uno scontro tra Unione europea e Russia, anche a costo di gettare quest’ultima nelle braccia della Cina, come in parte sta avvenendo. Questa strategia sta portando alla crisi dell’economia russa in seguito al calo del prezzo del petrolio e alle sanzioni, ma metterebbe a rischio anche i paesi europei, in prima linea Germania e Italia, se la Russia dovesse interrompere le forniture di petrolio e gas.

Se questo è il disegno di Obama, siamo in presenza di un gioco non solo miope ma cinico, che rischia di finire male per tutti e la cui prima vittima c’è già, l’Ucraina, che, come dice Bottarelli, sembra sparita dalle prime pagine, nonostante gli sfollati siano ormai più di 800.000 e i morti probabilmente più di 3.000. Un Paese che per storia e cultura poteva essere un punto di incontro è stato trasformato in un luogo di scontro e distruzione, una nuova Danzica.

In questo quadro c’è solo da sperare che, di fronte alle mosse russe o cinesi, alle intemerate di Bruxelles e alle sparate in arrivo da Washington, i nostri politici sappiano uscire dalle loro beghe e “allargare la ragione”, come chiedeva Papa Benedetto.