I soldati egiziani morti nell’attacco terroristico di venerdì scorso sono saliti a 33, tutta l’area del Sinai del Nord confinante con la Striscia di Gaza e Israele è in stato di emergenza e sotto coprifuoco, e il valico di Rafah, tra Gaza ed Egitto, è stato chiuso. Sarebbe un errore considerare questo come uno dei tanti tragici eventi che funestano quella tribolata frontiera.



Innanzitutto, non si tratta del “solito” kamikaze, ma di un attacco ben organizzato sul piano militare, il più grave degli ultimi anni, in una zona che ha visto già numerosissime vittime tra militari e forze di polizia egiziane nel tentativo di ripulirla dai gruppi estremisti e dai contrabbandieri, pure molto pericolosi. Si pensa che l’attacco sia opera di una fazione islamica molto attiva nel Sinai e ritenuta collegata ad Al Qaeda, ma non è da escludere un “interessamento” diretto dell’Isis.



Il presidente egiziano, il generale Al-Sisi, si è detto convinto di un appoggio esterno agli islamisti e ha accusato i Fratelli musulmani (e indirettamente la collegata Hamas), messi fuori legge dopo la destituzione del presidente Morsi da parte dell’esercito. Da parte loro, costoro hanno emesso un comunicato in cui condannano gli attacchi ai militari, ma ne addossano la responsabilità ad Al-Sisi e ribattono di essere un movimento pacifico che rifiuta la violenza.

Una prima conseguenza negativa degli attacchi è il peggioramento della situazione interna dell’Egitto, già alle prese con seri problemi economici, derivanti anche dalle difficoltà di una delle più importanti attività del Paese, il turismo, proprio per il succedersi di attentati, recentemente anche al Cairo. Vi è infatti il rischio di una crescita del controllo militare sul Paese, con l’estensione della giurisdizione dei tribunali militari che riporterebbe a una situazione simile a quella del regime di Mubarak, prima dei moti di Piazza Tahrir. La repressione dei Fratelli Musulmani ha già portato a molte condanne a morte e a migliaia di arresti.



L’Egitto, con i suoi 80 milioni di abitanti e per la sua posizione strategica, ha un ruolo nevralgico per la stabilità dell’Africa del Nord e del Medio Oriente, con diretta influenza su due dei maggiori problemi dell’area: Libia e Palestina. Anche il presidente palestinese Abu Mazen ha espresso il suo cordoglio al presidente egiziano per le vittime degli attacchi, dichiarandosi convinto della capacità dell’Egitto di sradicare il terrorismo. Anche Fatah, il movimento di Abbas, ha espresso la sua condanna per questi eventi, che considera “un attacco al progetto nazionale palestinese”.

Un’affermazione che potrebbe sembrare pretestuosa, tuttavia un altro esito degli attacchi è il rinvio dei colloqui indiretti tra Israele e Hamas che dovevano riprendere questa settimana al Cairo. L’immediata conseguenza sarà un rallentamento delle iniziative di ricostruzione a Gaza, dopo i danni della guerra, e un probabile ulteriore arresto nei già difficili colloqui per risolvere la questione palestinese, che danneggerebbe soprattutto Fatah.

Vi è un’altra vittima di cui tener conto ed è la popolazione del Sinai, ormai un’area in cui scorazzano predoni di tutte le tipologie e ideologie. Il governo egiziano è intenzionato a spostare migliaia di beduini per creare una più estesa zona cuscinetto con Gaza e impedire l’afflusso di terroristi e armi.

Un più deciso intervento del governo egiziano in quella specie di terra di nessuno che è ormai il Sinai, potrebbe forse essere l’occasione per cominciare ad affrontare la tragedia dei profughi africani, in particolare eritrei, irrisolta nonostante le denuncie di molte Ong e le dichiarazioni di molti enti internazionali, dall’Onu all’Ue, con pochi risultati concreti. Si calcola che dal 2009 all’anno scorso più di 30mila persone siano state forzatamente trattenute nel Sinai dai beduini, maltrattate e spesso torturate per ottenere il riscatto dalle famiglie.

Forse è una speranza mal riposta, visto che l’Ue ha accusato le forze di sicurezza sudanesi ed egiziane di partecipare a questo losco traffico umano. Inoltre, Israele ha chiuso le sue frontiere a questi profughi ed è in corso una contesa tra governo e Alta Corte israeliana, che ha dichiarata illegale la detenzione di un paio di migliaia di questi profughi in un campo all’interno di Israele.

L’Italia dovrebbe essere particolarmente attiva in questo settore, dato che anche le ondate di profughi che arrivano sulle nostre coste passano per le mani di questa criminale rete di trafficanti, pagando con i loro averi e spesso con la vita. Sarà anche bene ricordare che l’Eritrea era una nostra colonia e che dovremmo sentirci anche noi responsabili della tragica situazione in cui versa quel Paese. Invece la nostra politica estera, già non chiara o inesistente in molti dei suoi aspetti, sembra del tutto assente per quanto riguarda quella parte dell’Africa che è stata governata almeno per un po’ di tempo dall’Italia e che dovremmo sentire più vicina.