Le recenti dichiarazioni del ministro dello Sviluppo economico, Federica Guidi, sulla minore importanza strategica del gasdotto South Stream rispetto al concorrente Tap hanno portato alla ribalta un mondo finora prevalentemente riservato agli addetti ai lavori e affollato di nomi e sigle a volte evocative: Nord Stream, South Stream, Blue Stream, Tap, Tanap, Poseidon, Nabucco, Transmed, Galsi, e via dicendo.



Una rete di gasdotti ha essenzialmente due obiettivi: assicurare un sufficiente e costante rifornimento di gas e differenziare le fonti, sia per questioni economiche che di sicurezza. Sono evidenti gli aspetti politici della questione, essendo il gas, come il petrolio, un elemento fondamentale per le economie moderne e, quindi, altrettanto importante nelle relazioni tra Stati, tanto più che la produzione di idrocarburi è concentrata in aree non proprio “tranquille”.



L’Unione europea è forte importatrice di gas e circa un 30% proviene dalla Russia, in gran parte attraverso i gasdotti che passano per l’Ucraina. Da quando Kiev è diventata indipendente, questa è stata considerata dai russi una pericolosa strozzatura per le loro esportazioni, pur rappresentando un’arma nelle loro mani, come dimostra l’attuale crisi. Per questo motivo, la Russia, attraverso la statale Gazprom, ha deciso la programmazione di due altri gasdotti: il Nord Stream e il South Stream.

Il Nord Stream è operativo dalla fine del 2011 con il primo gasdotto e dal 2012 con la seconda parallela pipeline, ha una capacità di 55 miliardi di mc di gas e collega Russia e Germania attraverso il Baltico. Saipem e Snam hanno partecipato a progettazione e lavori. Il gasdotto è molto importante non solo per la Russia, ma anche per la Germania, che dipende da Mosca per circa il 30% del suo fabbisogno. Non a caso ai vertici della società che gestisce Nord Stream, controllata al 51% da Gazprom, siede Gerhard Schroeder, che vi è arrivato subito dopo la fine del mandato come Cancelliere.



Il progetto South Stream vede fin dall’inizio Eni tra i protagonisti, con un 20% nel capitale della società, controllata anch’essa da Gazprom con il 50%. Attraverso Mar Nero, Bulgaria, Serbia, Ungheria, il gas arriverebbe in Austria e da qui in Italia attraverso il Tag (Trans Austria Gasleitung, che già ci porta il gas russo dall’Ucraina). La portata dovrebbe essere di circa 60 miliardi di mc e, quindi, i due gasdotti renderebbero limitato, se non marginale, il ruolo dell’Ucraina.

Bruxelles, da sempre fredda nei confronti del progetto, dopo la crisi in Ucraina si oppone apertamente, mettendo in seria difficoltà Bulgaria e Serbia, paesi molto interessati al gasdotto e ora sotto pressione dell’Ue, di cui la prima è membro e la seconda candidata a entrare. L’Ungheria ha invece deciso di continuare con il progetto, guadagnandosi nuovi rimbrotti da Bruxelles.

La posizione del ministro Guidi è stata preceduta da una fredda dichiarazione dell’Ad di Eni, Claudio Descalzi, sull’indisponibilità del suo gruppo ad aumentare gli investimenti nel caso che il costo dell’opera aumentasse e di essere pronto a cedere la quota in South Stream. Secondo Descalzi, ciò non comprometterebbe comunque l’importante contratto di Saipem.

Il gasdotto cui va la preferenza del ministro, la Trans Adriatic Pipeline (Tap), collegherebbe il terminale italiano in Puglia, attraverso Albania e Grecia, fino al confine con la Turchia; da qui, con il Tanap turco, passando per la Georgia, arriverebbe a Baku e ai giacimenti di gas azero. Il Tap è entrato in fase operativa dopo che l’Azerbaigian lo ha scelto rispetto al più ambizioso concorrente Nabucco, che sembra destinato alla cancellazione.

Lasciando da parte le tensioni con la Russia, la dichiarazione della Guidi sembra oggettivamente sostenibile, in primis perché consentirebbe una differenziazione delle fonti di approvvigionamento, poi perché il terminale sarebbe in Italia, anche se sono già partiti i ricorsi al Tar di enti locali e ambientalisti. Da notare, però, che per il momento e a differenza di South Stream, nessuna azienda italiana partecipa al progetto.

La portata del gasdotto, la cui entrata in funzione è precista tra tre/quattro anni, è limitata inizialmente a 10 miliardi di mc, raddoppiabili in una seconda fase. Molto meno del South Stream, ma l’Italia ha altre fonti, come l’Algeria, da cui importiamo più gas che dalla Russia attraverso il Transmed, il gasdotto che passando per la Tunisia e il Canale di Sicilia porta il gas algerino a Mazara del Vallo, con una capacità tra i 25 e i 30 miliardi di metri cubi. Anche sul fronte algerino vi è un problema, perché da una decina d’anni è in campo un progetto per collegare direttamente i giacimenti algerini con l’Italia, precisamente la Sardegna, e poi dall’isola a Piombino e alla rete nazionale.

Ora anche questo gasdotto, chiamato Galsi (Gasdotto Algeria Sardegna Italia) e partecipato da Enel, dall’azienda di Stato algerina Sonatrach e da altri, è rimesso in discussione: in un’audizione alla Camera, l’Ad di Enel, Francesco Starace, ha affermato che il disinteresse degli altri soci e l’andamento dei prezzi rende il progetto “un bel problemino”.

Il quadro è completato dallo Greenstream, 8/10 miliardi di mc, che porta il gas dalla Libia a Gela, e qui i problemi di stabilità e sicurezza sono sotto gli occhi di tutti, e dal Transitgas che, attraverso la Svizzera, si connette al Trans Europa Naturgas Pipeline, portandoci il gas olandese e norvegese.

Le dichiarazioni in favore del Tap non faciliteranno i rapporti con Mosca, che vede nel gas delle ex repubbliche sovietiche, come Azerbaigian, Turkmenistan e Kazakhstan, fastidiosi concorrenti. Anche questi ultimi si muoveranno cautamente, per evitare contromisure del vicino russo. Sul fronte nordafricano, rischiamo l’irritazione dell’Algeria, che teme una diminuzione delle sue vendite in Italia ed è già notevolmente infastidita dalla vicende giudiziarie che coinvolgono Saipem e Sonatrach proprio a proposito di Galsi.

Questa analisi, pur incompleta, credo renda evidente l’importanza economica e strategica di aziende come Eni, Enel, Snam, Saipem, e i rischi connessi alla cessione del loro controllo. Non si tratta di un’astratta difesa dell’italianità, bensì del rifiuto ad accettare quel ruolo di cameriera del resto d’Europa, cui ci relega il discusso spot sulla nuova banconota da 10 euro.