Forse non molti si ricordano di Taksim Square, meno famosa dell’egiziana Tahrir o dell’ucraina Majdan, ma nell’estate del 2013 questa piazza di Istanbul vide l’inizio di manifestazioni contro il governo di Recep Tayyip Erdogan che si estesero poi ad altre città turche.

Tutto finì con una dura repressione, che portò a diversi morti e migliaia di feriti, e il governo “islamico moderato” di Erdogan continuò sulla sua strada sempre più autoritaria. O meglio, come scrive il giornalista turco Burak Berkdil sul sito del Gatestone Institute di New York, sulla strada della sostituzione di un regime autoritario, quello laicista creato da Kemal Ataturk dopo la caduta dell’Impero Ottomano e controllato dall’esercito, con quello instaurato dall’AKP, il partito islamista guidato da Erdogan.

Difficile non ricordare questa descrizione di fronte agli arresti in questi giorni di numerosi giornalisti e funzionari sotto l’accusa di complotto per rovesciare il legittimo governo. Questi arresti hanno scatenato le critiche dei partiti turchi di opposizione, che accusano Erdogan, nel frattempo diventato presidente della Repubblica turca, di violare il suo ruolo di garanzia, prefigurando di fatto una repubblica presidenziale.

Anche da Bruxelles sono arrivate critiche per la violazione della libertà di espressione, respinte dal presidente turco con un secco “pensate agli affari vostri”. Tutto questo solo un paio di giorni dopo la visita ufficiale di Matteo Renzi in Turchia, durante la quale il nostro premier ha affermato la sua speranza di un 2015 decisivo per risolvere l’annosa questione dell’adesione della Turchia all’Ue. Anzi, Renzi si è augurato che la riunione del 18 dicembre del Consiglio dell’Ue fosse un passo avanti in tal senso.

A giudicare dalla risposta data all’Ue, Erdogan non sembra essere rimasto molto impressionato dalle dichiarazioni di Renzi, e ha poi rincarato la dose dichiarando che le operazioni di polizia del 14 dicembre erano state falsamente descritte da agenti del Movimento Gulen come un tentativo di reprimere la stampa, falsificazione ripresa dalla stampa internazionale e anche dall’Ue, sempre pronta a criticare la Turchia.

E dire che nella sua visita, il nostro premier non si era neppure lamentato delle affermazioni di Erdogan sull’America scoperta da navigatori musulmani secoli prima di Colombo, che passando davanti a Cuba vide, infatti, una moschea.

Il riferimento al Movimento Gulen porta in evidenza lo scontro in atto tra l’AKP e il suo vecchio alleato, appunto il movimento guidato dal predicatore islamico Fethullah Gulen, dal 1998 in esilio volontario negli Stati Uniti. Infatti, tutti gli arrestati sono affiliati a questo movimento, accusato di voler attuare un colpo di stato, e venerdì è stato emesso anche un ordine internazionale di cattura contro Gulen.

La logica conseguenza dovrebbe essere la richiesta di estradizione a Washington, mettendo in forte imbarazzo il governo americano, tutto ciò alla vigilia dell’assunzione della presidenza del G20 da parte della Turchia che, non è da dimenticare, è anche membro della Nato.

Erdogan accusa l’imam e il suo movimento (denominato Hizmet, cioè servizio) di aver creato uno “stato parallelo”, infiltrando magistratura, polizia, scuola, e via dicendo. L’accusa sembra verosimile, ma è proprio anche grazie all’alleanza con questa struttura che l’AKP ha conquistato ripetutamente il successo nelle elezioni. Il rapporto tra i due si è deteriorato l’anno scorso in occasione dello scandalo per corruzione che portò alle dimissioni di alcuni ministri e toccò direttamente Erdogan, allora primo ministro.

Erdogan accusò Gulen di aver orchestrato il tutto con false accuse e ne venne fuori, secondo le opposizioni, epurando polizia e magistratura. Ma Hizmet rimane forte, non solo in Turchia, potendo contare su diversi milioni di aderenti nel mondo musulmano.

Tuttavia, sarebbe probabilmente sbagliato porre questa lotta, che sembra essere solo una lotta di potere, in termini di quantità e qualità democratiche dei due contendenti, almeno secondo il citato Berkdil, che è stato condannato a 20 mesi nel 2002, sotto l’AKP, per un’inchiesta sulla corruzione nella magistratura. Sempre su Gatestone, Berkdil riporta che giornalisti “gulenisti” su twitter hanno ringraziato per il loro sostegno giornalisti che erano stati a loro volta perseguitati durante l’alleanza tra Erdogan e Gulen: “Perdonateci… Noi non abbiamo difeso la vostra libertà qualche anno fa come invece oggi voi state difendendo la nostra”.

Sarà, ma l’Europa sembra sempre più lontana dal Bosforo, con buona pace di Renzi.