Nell’ultima puntata di Report, su Rai 3, Milena Gabanelli ha replicato con Gucci quanto aveva già fatto nello scorso novembre con Moncler. Allora i punti principali di denuncia furono la delocalizzazione della produzione perfino in Transnistria, lo Stato autoproclamato dalla minoranza russa in Moldavia, e le crudeli procedure utilizzate per togliere alle oche le piume con cui vengono fatti i piumini per i quali è famosa l’azienda italiana. Malgrado la decisa replica della Moncler, con la negazione di tutte le accuse e la minaccia delle usuali querele, il titolo subì un forte ribasso in Borsa e vi fu un rimaneggiamento nei vertici aziendali.

Nel caso di Gucci, i maltrattamenti alle oche sono stati sostituiti dalle pesanti condizioni di lavoro imposte da subfornitori a lavoranti cinesi impiegati nella produzione delle borse. Questa grave accusa ha suscitato, tra l’altro, la sdegnata reazione del governatore della Toscana, Enrico Rossi, che, con una serie di tweet, ha immediatamente difeso la Regione dall’accusa di non aver effettuato controlli, definendo la Gucci un’azienda seria e il giornalismo di Report simile a un’azione di “pirateria” che, per fare audience, manda all’aria il lavoro di anni e alimenta l’industria dell’anti-politica e dell’anti-lavoro nel Paese.

Il problema dei lavoratori cinesi si inserisce nella più ampia accusa a Gucci di sfruttare il lavoro dei subfornitori e a prova di ciò viene portata l’enorme differenza tra il prezzo di una borsa in negozio, circa 800 euro, e i 24 euro pagati al laboratorio che la confeziona.

Nel suo comunicato, la Gucci contesta le accuse della Gabanelli, affermando di produrre il 100% in Italia dando lavoro a più di 7000 addetti, di cui il 90% italiani, attraverso 576 società anch’esse italiane. L’azienda nega ovviamente di aver autorizzato, o addirittura suggerito, sfruttamenti di alcun tipo e, per quanto riguarda il prezzo, fa presente che i 24 euro si riferiscono a una singola fase produttiva di assemblaggio parziale. Per arrivare al prezzo al negozio, vi sono una serie di altri passaggi, dal costo delle materie prime alla logistica, che possono anche moltiplicare per 25 volte il costo indicato nella trasmissione.

Milena Gabanelli ha replicato a sua volta, confermando tutti i rilievi mossi e dicendosi pronta a consegnare il materiale a sostegno alla magistratura. Ha inoltre rigettato l’accusa di aver basato tutto su sole tre aziende, per di più scelte ad hoc.

Sulla questione dei lavoratori cinesi c’è poco da dire se non augurarsi che gli organi di controllo accertino quanto prima le eventuali violazioni delle norme sul lavoro, sui contributi e fiscali. Inoltre, si dovrà verificare se, come sostiene Report, l’impiego di lavoratori cinesi può configurarsi come concorrenza sleale nei confronti dei subfornitori italiani, una specie di “delocalizzazione in loco”, senza i costi e rischi di uno spostamento reale della produzione. Sarà anche interesse della Gucci, al di là delle dichiarazioni, verificare e poi comunicare la reale situazione, se non altro perché sarebbe controproducente trincerarsi dietro un generico “non sapevamo”.

Le altre accuse di Report lasciano per la verità un po’ più freddi, a partire da quelle sull’abuso della definizione Made in Italy per i propri prodotti. Non credo che il Made in Italy sia completamente sovrapponibile con “prodotto in Italia da italiani”, ma attenga molto di più alle aree della ideazione, dello stile, dei materiali usati e di come sono impiegati, dell’accuratezza del lavoro, e via dicendo: queste sono le aree che devono rimanere sotto l’egida italiana. Non credo che chi compra una Mercedes venga messo in crisi dal fatto che alcune componenti siano fatte, che so, in Serbia, o che molti degli operai negli stabilimenti tedeschi siano turchi. Né credo che sia determinate di per sé chi sia il proprietario della società. Se Gucci è ora del francese Pinault è perché a suo tempo nessun italiano si fece avanti per acquistare l’azienda, come in molti altri casi anche nello stesso settore. O forse la Gabanelli preferiva un intervento dello Stato, una nuova Alitalia? Magari proprio questa assenza della nostra imprenditoria poteva essere un buon punto di partenza per discutere in modo più approfondito sul Made in Italy.

Anche sul versante del prezzo vi è molto da dire, perché è molto più facile sparare in TV quell’enorme differenza piuttosto che fare una seria analisi della struttura dei costi. Per incominciare, non è corretto attribuire tutta la differenza alla sola Gucci, perché una parte del ricarico va al negoziante, e in questo settore i margini non sono da prodotto alimentare. Poi, non sembra corretto considerare solo una fase della produzione e qui Gucci ha buon gioco elencando le varie fasi che la messa in commercio di un prodotto prevede.

Anche qui, sarebbe interessante che l’azienda fornisse una descrizione più dettagliata di tale struttura, pur salvaguardando la necessaria riservatezza aziendale. Report stessa avrebbe potuto allargare la sua inchiesta, indagando le fasi produttive e quelle distributive, senza ovviamente la pretesa di ricostruire analiticamente i costi, bensì la complessità della struttura e gli altri eventuali punti di inefficienza o di esosità.

Ma questa sarebbe stata un’inchiesta giornalistica, non una denuncia programmatica e l’osservazione viene da una dichiarazione della stessa Gabanelli: “È gravissima e lesiva della libertà di espressione e di denuncia la dichiarazione di Gucci”, riferendosi a quanto Gucci dice sulle modalità di raccolta delle informazioni di Report. Con buona pace del governatore Rossi e delle sue preoccupazioni per i danni che queste trasmissioni portano al Paese.