Dopo le anticipazioni “politiche” di Putin sulla cancellazione del progetto South Stream, è ora arrivata la comunicazione ufficiale da parte di Gazprom, l’azienda statale russa socia di maggioranza del progetto per il gasdotto. Come annunciato, la prima vittima è stata Saipem, alla quale il consorzio South Stream ha richiesto di fermare le due navi che hanno iniziato a posare le tubature subacquee.
Inevitabile un vistoso calo del titolo in Borsa, dato che il contratto vale 2,4 miliardi di euro e una sua cancellazione porterebbe a un mancato ricavo di circa 1,250 miliardi, più i costi per il fermo dei mezzi impiegati. Saipem ha sottolineato che si tratta solo di una sospensione, ma ciò non ha fermato i giudizi negativi degli analisti.
Putin ha accusato l’Ue di aver posto ostacoli tali da rendere invitabile la chiusura del progetto, ma Bruxelles ha risposto che considera il progetto ancora in vita e ne discuterà in una prossima riunione il 9 dicembre. Il presidente della Commissione europea, Jean-Claude Juncker, ha dichiarato che non vi saranno problemi “insormontabili” se la Russia aderirà alle richieste dell’Ue, cioè che Gazprom non sia contemporaneamente fornitore del gas e gestore del gasdotto. Juncker è sembrato voler in qualche modo ridurre gli aspetti politici della questione, focalizzandosi su quelli regolatori, anche perché l’ipotesi di cancellazione del gasdotto ha causato preoccupazione nei paesi balcanici interessati al progetto.
Il Primo ministro bulgaro, Boyko Borissov, ha rigettato l’accusa di Putin di aver ceduto alle pressioni di Bruxelles e si è dichiarato in favore di South Stream, se saranno rispettate le norme europee. Anche la Serbia ha fatto trapelare la sua irritazione per lo stop al progetto, dichiarandosi vittima di uno scontro tra grandi potenze e riservandosi di discutere la questione direttamente con Mosca. Per quanto riguarda l’Ungheria, il suo governo si era già dichiarato a favore comunque del progetto, rifiutandosi di accogliere le pressioni europee.
Dietro le aperture della Commissione verso South Stream, oltre le rimostranze e la ventilata richiesta di un risarcimento all’Ue dei paesi balcanici, vi è probabilmente l’accordo firmato ad Ankara per un gasdotto per portare il gas russo direttamente in Turchia e da lì in Grecia, rendendo inutile il costoso South Stream. Gli unici che sembrano decisi al De Profundis per il South Stream sono gli Stati Uniti, che suggeriscono l’installazione di una serie di rigassificatori per il gas liquido, che potrebbe essere importato via mare da una serie di fornitori, compresi in futuro gli stessi Usa.
Ecco altri problemi per l’Italia, perché l’opposizione ambientalista, le incertezze legislative e le lentezze burocratiche hanno finora reso pressoché impossibile la realizzazione di questi impianti. Si pensi solo alla vicenda di British Gas che, dopo più di dieci anni di attesa, ha rinunciato al rigassificatore di Brindisi. In Puglia dovrebbe anche essere costruito il terminal del gasdotto Tap, ritenuto dal nostro governo preferibile a South Stream, ma i lavori sono fermi per le contestazioni di ambientalisti ed enti locali.
Le scelte del governo e l’apparente scarso interesse dello stesso Eni per un progetto di cui pure è socio rendono la strada di Saipem decisamente in salita, anche se vi è un aspetto positivo per chi ritiene sbagliata l’ipotesi di vendita della quota Eni in Saipem, dato che la discesa in Borsa rende meno vantaggiosa tale vendita.
È da tenere poi presente che il costante calo del prezzo del petrolio sta rallentando gli investimenti nella ricerca e perforazione. Quasi tutti i nuovi progetti prevedono perforazioni a grandi profondità, o comunque in condizioni non favorevoli, e richiedono tecnologie avanzate e costose, come quelle in cui eccelle Saipem, e l’attuale livello dei prezzi non consente un sufficiente ritorno economico. Ciò vale anche per gas e petrolio di scisto, che comincia anche a essere messo sotto accusa per questioni ambientali. Inoltre, un basso prezzo del petrolio trascina con sé quello del gas e rende anche meno vantaggiose molte risorse energetiche rinnovabili
Secondo un’analisi della società di consulenza norvegese Rystad Energy, riportata da Reuters, ci si può aspettare lo stop di circa un terzo dei nuovi progetti di ricerca di petrolio e gas previsti per il 2015, situazione che potrebbe peggiorare con ulteriori cali dei prezzi.
Nella recente riunione degli Stati membri dell’Opec, che producono più di un terzo del petrolio disponibile, l’Arabia Saudita è riuscita a respingere le richieste degli altri produttori di una riduzione della produzione che portasse a una certa ripresa dei prezzi. Anche l’Arabia Saudita sta vendendo il suo petrolio al di sotto del punto di pareggio, ma ha sufficienti risorse finanziarie per reggere la sfida per un periodo non breve, a differenza della maggioranza dei suoi concorrenti dentro e fuori l’Opec.
La guerra dei prezzi condotta dai sauditi, in particolare contro la concorrenza americana e russa, è confermata dal listino prezzi per il 2015 della loro compagnia di Stato, la Saudi Aramco, che ha aumentato gli sconti già in essere per i mercati asiatici e Usa, provocando un’ulteriore diminuzione nei prezzi del Brent, il petrolio del Mare del Nord, e del Wti, il petrolio americano.
È evidente come questa pericolosa guerra si stia svolgendo, prima ancora che tra compagnie petrolifere, tra governi, in particolare saudita, statunitense e russo. L’Italia rischia di essere il solito vaso di coccio, fortemente dipendente dall’estero per i propri fabbisogni energetici e in balia di altri anche per le proprie società operanti nel settore, in primis Eni e Saipem, ma anche Enel e numerose altre.
Alla riunione del 9 dicembre a Bruxelles, c’è da augurarsi che l’Italia faccia valere i propri interessi, come stanno cercando di fare le ben più piccole e deboli Ungheria e Bulgaria, ricordandosi magari di essere lo Stato che ha detenuto la presidenza di questo semestre, anche se nessuno se ne accorto, a partire da Renzi.