Mentre scrivo, il Consiglio di Sicurezza dell’Onu si è riunito per la seconda volta, la prima è stata venerdì scorso, per discutere della questione ucraina, che sta evolvendo nei peggiori dei modi, dopo che il Senato russo ha autorizzato Putin ad intervenire in Crimea. Qui i molti filorussi si stanno muovendo e, secondo alcune voci, soldati e marinai sono già usciti dalla base militare russa di Sebastopoli per partecipare all’occupazione di edifici pubblici, insieme a paramilitari locali.



Notizie difficili da verificare, così come sarà difficile che il Consiglio di Sicurezza possa prendere decisioni contro la Russia, che dispone del diritto di veto. Né credo che a molto possano le “dure” dichiarazioni di Obama, né le esagitate reazioni dei falchi Repubblicani. L’esempio della guerra in Georgia di qualche anno fa non depongono a favore.



L’unica strada possibile sembra essere quella di una efficace azione diplomatica, e politica, che escogiti una soluzione conveniente per tutte le parti in causa, prima che la situazione precipiti drammaticamente. Malgrado la simpatia per i manifestanti ucraini, proprio da lì possono sorgere forze incontrollate che portano al disastro, molto più che dal freddo Putin, aduso a correre rischi calcolati.

Nel frattempo può servire ripercorrere il filo storico che lega questi avvenimenti.

Esattamente 160 anni fa, alla fine del marzo 1854, Francia e Gran Bretagna dichiaravano guerra alla Russia, intervenendo così direttamente nel conflitto che, dall’anno prima, opponeva l’Impero Ottomano alla Russia zarista, passato alla storia come la Guerra di Crimea. Di questa guerra, l’episodio più famoso è certamente la “carica dei 600” a Balaclava, nelle vicinanze di Sebastopoli, la cui difesa da parte dei russi costituì un punto centrale dell’intero conflitto.



Il porto sul Mar Nero è ora tornato alla ribalta delle cronache a seguito degli eventi che sconvolgono l’Ucraina, in buona parte per le stesse ragioni di allora: la possibilità per la Russia di mantenere una flotta militare nel Mar Nero, con il conseguente accesso al Mediterraneo.

Questa volta i contendenti sono Russia e Ucraina, con gli abitanti della penisola che sono per la maggior parte apparentemente a favore del distacco dall’Ucraina, come conseguenza della politica di progressiva russificazione della Crimea dopo la sua annessione, alla fine del 1700, all’impero russo. Questa politica raggiunse il suo apice alla fine della seconda guerra mondiale, quando Stalin deportò i tartari di Crimea, tornati in numero molto ridotto dopo il crollo dell’Unione Sovietica.

Pur collegata ad essa da un istmo, la Crimea ha storicamente poco a spartire con l’Ucraina, alla quale è stata unita nel 1954 dall’ucraino Krusciov, che da ragazzo visse a Doneck, della cui provincia il deposto Yanukovych è stato governatore dal 1997 al 2002.

Dei molti fattori che intersecano la complessa situazione ucraina, quello storico-nazionalista sembrerebbe quindi determinante in Crimea, situazione che è stata anche istituzionalmente riconosciuta con l’attribuzione alla Crimea dello status di repubblica autonoma all’interno dell’Ucraina.

L’offuscazione ideologica che ha invaso per decenni l’Occidente, grazie ai partiti comunisti e alla cosiddetta intellettualità di sinistra, particolarmente qui in Italia, ha nascosto la evidente continuità tra la politica espansionistica dell’Unione Sovietica e quella dell’impero zarista. Anche se pare dimenticata, La decennale guerra dei sovietici in Afghanistan ne è una dimostrazione, ma questa volta non c’è stato nessun Rudyard Kipling a descrivere il “Grande Gioco” e l’invasione sovietica sembra ormai dimenticata in quasi tutte le analisi della situazione afgana.

Uno dei tratti comuni di queste politiche di espansione è stata la russificazione dei territori via via occupati, spesso con la violenza, come testimonia la storia della Crimea. La presenza etnica russa è molto forte anche nelle regioni dell’Ucraina orientale e nella zona di Odessa. Qui siamo al confine, peraltro, con la Transnistria, una regione della Moldavia di fatto indipendente da Chisinau, che rappresenta un altro punto di potenziale scontro tra russi e ucraini, etnie ora maggioritarie nella regione rispetto ai moldavi.

Non a caso, lo zar era “zar di tutte le Russie”, cioè anche dei “russi bianchi”, i bielorussi, e dei “piccoli russi”, nome dato agli ucraini per differenziarli dai “grandi russi”, quelli di Russia. Né è da dimenticare che l’Ucraina è all’origine della Russia storica, con il Principato di Kiev.

Tutto questo dovrebbe suggerire molta cautela a Unione Europea e Stati Uniti, soprattutto questi ultimi dovrebbero rendersi conto che l’epoca della potenza unica sopravvissuta alla Guerra fredda è terminata, ammesso che sia mai esistita. E l’Europa non dovrebbe dimenticare che i settant’anni di pace di cui ha goduto, non sono dovuti all’Ue, come ha affermato anche recentemente Renzi, bensì ai Patti di Yalta, firmati proprio in Crimea tra Stalin e Roosevelt. Pace turbata solo da guerre interne di indipendentisti, come in Irlanda del Nord e in Spagna, o da movimenti comunisti, come in Italia e Germania. Per non parlare della guerra civile in Grecia dei comunisti contro il governo monarchico tra il 1946 e il 1949. Una pace, comunque, pagata a caro prezzo dai Paesi dell’Europa orientale.

Come detto, Putin continua la storica politica di espansione dell’influenza russa, riprendendo il controllo progressivo dei Paesi asiatici già parte dell’Urss e svolgendo un ruolo attivo nell’area medio-orientale, grazie anche all’inconsistenza della politica estera occidentale. A maggior ragione la sua azione è ancor più decisa in una regione, come quella descritta, considerata “russa”, non solo da lui, ma da molti suoi compatrioti.

L’Europa, se decidesse di abbandonare la vuota e strumentale retorica europeista e, magari, studiasse un po’ di più la propria storia, potrebbe fare molto per portare stabilità in quelle regioni, e anche maggior sviluppo economico, se rinunciasse a fare solo i propri affari. Una delle armi principali di Putin contro l’Ucraina è la fornitura di gas, arma che è rivolta anche contro l’Europa del Sud, in particolare l’Italia. La Germania e i Paesi dell’Europa del Nord possono stare, invece, tranquilli: per loro le forniture arrivano attraverso il Baltico, con il North Stream, consorzio il cui presidente è, guarda caso, l’ex cancelliere socialdemocratico Gerhard Schroeder, buon amico di Putin.