Gli eventi tragici che sta vivendo il popolo iracheno dovrebbero portare noi occidentali, americani ed europei, a serie riflessioni sulla nostra incapacità di leggere la realtà e la storia, nostra e degli altri. E parecchie sono le aree in cui questa riflessione dovrebbe esercitarsi.
Innanzitutto, la nostra posizione sulla guerra. In un suo recente editoriale, Robi Ronza citava le parole con cui Giovanni Paolo II si era opposto alla guerra del Golfo, la prima guerra contro l’Iraq condotta da Bush padre. Nelle parole del Papa si potevano leggere in controluce i principi alla base della dottrina cattolica sulla Guerra giusta, in particolare: che tutti gli altri mezzi si siano rivelati impraticabili o inefficaci e che il ricorso alle armi non provochi mali e disordini più gravi del male da eliminare.
Se nella Guerra del Golfo almeno un altro principio della dottrina sembrava essere stato rispettato, cioè un danno causato dall’aggressore durevole, grave e certo, cioè l’invasione del Kuwait, nella seconda guerra contro Hussein, quella di Bush figlio, questo requisito si è dimostrato inesistente, non essendosi trovata prova dell’esistenza di armi di distruzione di massa.
Invece, la caduta di Hussein ha lasciato l’Iraq in condizioni peggiori di prima, con ricadute pericolose su tutta l’area medio-orientale. La stessa cosa si può dire per la Libia, per la Siria e, purtroppo, non si può escludere per il futuro dell’Afghanistan.
In tutti questi casi si è pensato, ideologicamente, che bastasse vincere una guerra e abbattere il tiranno di turno per riportare automaticamente la pace e la democrazia. Contrariamente a quello che fecero nell’Italia e la Germania del secondo dopoguerra, in Iraq gli americani hanno sciolto tutto l’apparato del regime sconfitto, non solo i suoi vertici e maggior responsabili, mettendo le premesse del caos attuale.
Il punto non è, come spesso si è detto, che la democrazia non si può esportare con le armi: la Seconda guerra mondiale ha reimportato la democrazia in Europa, una democrazia peraltro diversa da quella preesistente, in certi casi anche sensibilmente, come per il Giappone. Il punto è che la democrazia non si può creare prendendo, e tanto meno imponendo scorciatoie, senza rispettare la storia e la cultura dei popoli.
Nel caso dell’Iraq, come negli altri casi citati, è stato questo l’errore fondamentale. L’Iraq come Stato è un’invenzione degli inglesi, il cui progetto era di riunire sotto i due rami della dinastia hashemita, discendente diretta del Profeta, tutta l’area, progetto contrastato dal disegno francese sulla Grande Siria, includente il Libano. I colpi di Stato militari del secondo dopoguerra in Iraq e in Siria, con l’avvento al potere del partito socialista Baath, ha messo fine a questo disegno. La dinastia hashemita è rimasta al potere solo in Giordania, ed è in effetti un elemento di stabilità nell’area, non a caso nel mirino dei fondamentalisti, nonostante la diretta discendenza da Maometto.
Anche la Libia e l’Afghanistan sono Paesi etnicamente compositi e basati su una struttura tribale, tenuta insieme a suo tempo dalle rispettive monarchie, anch’esse cadute a seguito di putsch militari. La Libia finì sotto la feroce dittatura di Gheddafi, l’Afghanistan in una lotta tra fazioni militari di orientamento comunista, causa della decennale guerra sovietica in Afghanistan. Quella guerra che, anche se stranamente se ne parla poco, ha contribuito notevolmente al crollo dell’Urss ed è il punto di inizio dell’attuale crisi.
Lo scioglimento dell’Urss ha fatto parlare di una assurda “fine della Storia”, di un mondo governato da un’unica potenza mondiale, gli Stati Uniti, con un grande Paese come la Cina che si pensava poter tener a bada con qualche accordo, o giochino, economico-finanziario. Anche l’Europa, libera dalla minaccia sovietica, pensava alla Russia solo come un grande mercato da sfruttare, a una ex potenza di cui si poteva ormai non tener più conto.
In questa autoreferenza non molto sobria, i pasdaran europei pensavano di non dover più nulla agli Usa, ché la pace e la difesa dai sovietici era solo merito loro, e con l’avvento dell’euro molti pensavano fosse giunto il momento di “spezzare le reni al dollaro”.
Poi la Storia ha presentato il suo conto su tutti i fronti citati. Sarebbe bastata anche una rapida occhiata alla storia di Iraq, Siria e Libano, per vedere che in questi Paesi era ben presente la maggiore divisione del mondo musulmano, quella tra sunniti e sciiti, e che solo una supponente ignoranza poteva far pensare che bastasse sventolare le bandiere della democrazia occidentale, sia pure sulle baionette, per impedire gli scontri tra fazioni che si combattono da quattordici secoli.
Una simile ignoranza può essere spiegata per gli americani e la loro breve storia, ma gli europei dovrebbero ricordarsi che, fino a tutto il 1800, accanto alle lotte interne al modo cristiano, la loro storia è stata caratterizzata dallo scontro con il mondo musulmano. E se a Occidente la minaccia musulmana è cessata alla fine del 1400, con la Reconquista spagnola, a Oriente i popoli balcanici hanno lottato per l’indipendenza contro i Turchi fino al 1800.
La gran parte dei problemi del Nord Africa e del Medio Oriente derivano dalla progressiva perdita di controllo dell’area a favore delle potenze occidentali da parte dell’Impero Ottomano, fino al suo disfacimento dopo la Prima guerra mondiale. L’Occidente ha ideologicamente trasferito questa sua vittoria militare e politica anche in termini culturali e religiosi, fraintendimento facilitato dall’avvento al potere delle citate élite militari sostanzialmente laiche. Inoltre, ha ritenuto irreversibile lo Stato laicista, più che laico, instaurato in Turchia da Kemal Atatürk sul modello francese, giudizio dimostrato fallace proprio in questi ultimi tempi.
Soprattutto gli europei dovrebbero ricordarsi che è sempre un tragico errore umiliare i popoli vinti, come si è potuto tragicamente sperimentare per la Germania dopo la Prima guerra mondiale e il successivo avvento del nazismo. Se ci piace, lo possiamo chiamare revanscismo, ma non basta condannarlo per evitarne le nefaste conseguenze. E’ il rischio che si sta correndo con i russi e che è già drammaticamente in atto nel mondo musulmano.
Non serve esorcizzare ciò che sta accadendo in Iraq, e altrove, etichettandolo come terrorismo, perché è riduttivo di fronte a fenomeni come l’Isis, o anche come Hezbollah o Hamas. Il termine può adattarsi ai loro mezzi (dall’altra parte etichettano come terroristi gli attacchi Usa con i droni), ma non ai loro fini, che sono quelli di costituire Stati che rispondono ai loro criteri, sia pure per noi discutibili o inaccettabili. E l’obiettivo di ricostituire il Califfato significa per moltissimi musulmani il sogno di tornare a un islam glorioso e temuto in tutto il mondo.
L’Occidente non sta perdendo principalmente sul piano bellico, perché la battaglia è prima di tutto culturale. E’ senza dubbio da condividere la speranza di RobiRonza di una nuova conferenza di Vienna che possa risolvere la drammatica situazione attuale tenendo conto di tutte le esigenze. Ma di fronte alla “reconquista” islamica, quale coscienza culturale può opporre l’Occidente?