Non vi è forza politica in Italia che non abbia inserito nei suoi programmi la necessità “imprescindibile” di riforme “fondamentali” che avrebbero cambiato la vita degli italiani. Poi tutto si è quasi sempre impantanato nel diluvio degli emendamenti, negli sfibranti compromessi, nella mancanza dei regolamenti attuativi, nell’ostruzionismo della burocrazia e delle varie caste”, nella selva dei ricorsi, per poi essere, quasi sempre, rimesso in discussione dal governo successivo.
Le riforme sembrano essere il convitato di pietra della nostra politica e sarebbe bene che i nostri politici, e le altre istituzioni coinvolte nella questione, si rileggessero la fine che il Convitato di pietra fa fare a Don Giovanni.
Le riforme sono il cavallo di battaglia o, meglio, il grido di guerra (cioè, lo slogan, che questo è il significato originale della parola) anche di Matteo Renzi che, partito con una rottamazione di sapore grillesco, una volta approdato al governo ha “cambiato verso”, accontentandosi di annunciare riforme una dopo l’altra. Rimane tuttavia forte la sensazione che Renzi tenda a considerare la riforma come un valore in sé, indipendentemente dalla sua utilità reale.
Prendo come esempio due delle principali riforme in discussione, quella del Senato e quella elettorale, per segnalare una questione generale di metodo che mina dalle fondamenta, a mio parere, tutta la impostazione, rimandando per i giudizi di merito ai numerosi articoli pubblicati dal sussidiario.
Nella proposta di Renzi per il Senato, che ha suscitato forti reazioni negative anche nel PD, si veda la controproposta di Vannino Chiti, sorprende la faciloneria con cui è stata affrontata una riforma che tocca profondamente l’impianto costituzionale. Se è evidente che il nostro bicameralismo perfetto è diventato dannoso, una sua riforma richiede che si cerchi di capire a quali bisogni, interessi, equilibri cercava di rispondere allora la Costituzione, per stabilire come sono cambiati e a quali requisiti deve ora rispondere il riassetto del sistema istituzionale. Non è serio cavarsela dicendo che con la sua proposta si risparmiano gli emolumenti dei senatori.
Nell’intervista al sussidiario, il senatore Pd Miguel Gotor distingue giustamente tra un Senato di garanzia, da eleggere direttamente, e un Senato delle autonomie, da eleggere in secondo grado. Apparentemente Renzi ha scelto la seconda opzione, ma con chi ne ha discusso e quali sono le ragioni della scelta? E non sarebbe stato più logico ridisegnare con precisione le funzioni da attribuire alle due Camere prima di parlare della composizione e dei metodi di scelta dei membri del nuovo Senato?
Tutto questo rimane in secondo piano e viene proposta una specie di Camera delle corporazioni che non molto ha a che fare né con la garanzia, né con le autonomie, né tantomeno con la rappresentatività.
La storia si ripete con la legge elettorale, dove i “principi” che vengono opposti tra loro sono quelli della rappresentatività e della governabilità, ritenuti aprioristicamente e falsamente inconciliabili: la prima esigenza ha dominato a lungo con i vari sistemi proporzionali, la seconda ha preso il soppravvento da quando è stato inventato il bipolarismo “de noantri”.
Il Porcellum è l’esempio di una legge creata per assicurare la governabilità che ha fatto più danni ad essa di quanto avrebbe fatto un proporzionale intelligente, per poi essere dichiarata incostituzionale. La proposta di Renzi, con Berlusconi almeno inizialmente d’accordo, ha tutti gli svantaggi del Porcellum, compreso il rischio di essere dichiarata incostituzionale il giorno dopo. E’ stupefacente come nessuno dalle parti del Parlamento sembri ricordare che nel settembre del 2013 la cosiddetta Commissione dei saggi voluta da Napolitano presentò la sua relazione, con proposte serie, anche se ovviamente da discutere, sulle riforme istituzionali. Visto che la relazione fu presentata al governo in carica, quello attuale, qualcuno dei ministri avrebbe potuto farlo presente a Renzi, l’unico che non c’era e che, da buon rottamatore, è evidentemente abituato a far strame di ciò che lo ha preceduto.
Nessuno nega l’importanza del “fare”, ma come ricordato altrove, governare è termine marinaio, attiene alla fondamentale funzione del timoniere e, per sentirsi sicuri, ai passeggeri non basta sapere che il timone c’è e che il timoniere si dà un gran daffare, vogliono anche sapere il porto di partenza e quello di arrivo, se il timoniere conosce e sa seguire la rotta giusta. Altrimenti, hai un bel girare la ruota del timone continuando a gridare “terra”, la nave va alla deriva.