I dati recentemente comunicati dalla Consob, insieme ad altre notizie degli ultimi giorni, hanno portato alla ribalta l’interesse della Cina, ormai da qualche anno, nei confronti delle imprese italiane, come verso quelle di altri paesi europei. I primi commenti fanno trapelare qualche incertezza, con gli usuali richiami alla “italianità” e ai ruoli strategici delle aziende. Richiamo bizzarro, se solo si pensa che tale ruolo non ha avuto nessun peso in cause intentate da nostri magistrati, che hanno danneggiato proprio nostre aziende strategiche. Basti pensare alla causa per corruzione internazionale relativa agli elicotteri che Finmeccanica stava vendendo all’India. La causa è finita in un’assoluzione, ma intanto la commessa è passata agli “onesti” concorrenti francesi e la questione ha anche reso più difficile la già assurda vicenda dei nostri marò.
Eppure, abbiamo continuato a lamentarci di un’Italia fanalino di coda negli investimenti esteri sul territorio, salvo poi metterci sulla difensiva quando qualcuno si affaccia al nostro mercato. È ovvio che un investimento non è positivo solo perché viene dall’estero, ma è anche ovvio che ogni investimento, da chiunque fatto, debba essere valutato per le sue caratteristiche intrinseche e per le sue conseguenze sul sistema economico nazionale. Il primo giudizio spetta a chi investe e l’errore è parte del rischio imprenditoriale; il secondo dovrebbe essere compito del governo, ma richiederebbe una politica industriale ormai da decenni assente in Italia e ben presente, invece, nei nostri partner europei. Sarebbe interessante un’analisi delle difficoltà riscontrate dalla nostra “aristocrazia” imprenditoriale, dagli Agnelli, i De Benedetti, i Pirelli, ad esempio, in Francia o Germania, e del comportamento dei nostri governi di allora.
Provo quindi a vedere, ovviamente “a occhio”, quale può essere per noi il significato di alcuni principali investimenti cinesi in Italia, partendo da quelli della People’s Bank of China, la banca centrale cinese.
Telecom Italia: la banca cinese ha acquistato il 2,08%, e non credo ci sia molto da ridire. Negli ultimi tempi abbiamo letto compiaciuti discorsi sulla Telecom diventata public company ed è quindi ovvio l’interesse di altri investitori dopo l’ingloriosa ritirata dei nostri campioni italiani nella Telco e la decisione di Telefonica che la missione di frenare Telecom era compiuta, o diventata troppo costosa. Tra l’altro, una presenza della banca cinese potrebbe far riaprire l’ipotesi di un’entrata di 3 Italia della Hutchison Whampoa, di cui si era parlato l’anno sorso e accantonata proprio per il freno posto da Telefonica.
Qui la People’s Bank ha acquistato il 2%, ma forse è il caso di rassegnarsi al fatto che la Fiat-Chrysler non è più una società italiana, ma ha solo stabilimenti in Italia, e governo e sindacati farebbero bene a operare in modo che vi rimangano. Che la Cina investa in un’azienda che fa il grosso del fatturato negli Stati Uniti mi sembra del tutto logico, così come sembra logico che l’investimento sia ben accettato da un’azienda che in Cina ha una posizione inferiore a quella dei diretti concorrenti.
Eni ed Enel: anche qui la banca ha quote di poco superiori al 2%, in due società che sono decisamente importanti per il nostro sistema economico e per la nostra presenza internazionale. Circa la prima, è da notare che Eni già collabora con Pechino nell’esplorazione dei rilevanti giacimenti di idrocarburi del Mozambico, uno dei paesi africani, e sono molti, in cui la presenza cinese è determinante. Inoltre, Eni ha in corso collaborazioni per lo sviluppo dello shale gas in Cina.
Per quanto riguarda l’Enel, è da tenere presente il sempre più grande interesse della Cina per l’energia, uno dei conduttori anche della sua politica internazionale, e le contemporanee mosse che altri investitori cinesi pubblici hanno fatto in Italia, di cui qui di seguito.
Ansaldo Energia e Shanghai Electric: qui la partecipazione è consistente, del 40%, che comporta un coinvolgimento nella gestione dell’azienda. D’altro canto, la società era in predicato di essere venduta ai tedeschi della Siemens, così invece rimane italiana. Ansaldo Energia costruisce centrali elettriche ed è quindi evidente l’interesse della Cina per queste tecnologie e, per converso, l’interesse di Ansaldo all’apertura dell’enorme mercato cinese. Rimane, tuttavia, il rischio che il tutto si limiti a qualche sollievo finanziario sul breve-medio termine, con un progressivo trasferimento di tecnologie a imprese cinesi che andranno a sostituire una svuotata Ansaldo. Sarebbe interessante sapere quali precauzioni ha preso in tal senso il governo nei suoi colloqui a Pechino. Comunque, considerando la quota della People’s Bank in Enel, per il momento si possono ipotizzare sinergie positive anche per il gruppo elettrico.
Cdp Reti e State Grid China: anche qui la quota è consistente, il 35%, ed è la partecipazione che ha già sollevato allarmi non del tutto ingiustificati, dato che Cassa depositi prestiti Reti detiene il pacchetto di controllo di Terna e Snam, che gestiscono due infrastrutture basilari per il Paese. Sembrerebbero chiare le valenze positive finanziarie dell’operazione per entrambi i contraenti: per la Cdp che smobilizza capitale (si parla di circa 2 miliardi di euro) da investire in altre operazioni, senza perdere il controllo della società, e per l’ente statale cinese che entra in una società che dà buoni margini operativi. Meno chiari paiono, almeno a me, gli altri aspetti di sinergia industriale e, certamente, quelli possibili di tipo politico. Anche qui, sarebbe bene che il governo dicesse qualcosa di più.
Come premesso, si tratta di un’analisi affrettata che necessita di molti approfondimenti, ma che permette di aggiungere qualche altra considerazione generale, a partire dalla sensazione che, mentre è abbastanza evidente la strategia cinese, quella del nostro governo non sia così facile da intravvedere. Non vi è dubbio sull’opportunità di sviluppare maggiori rapporti con la Cina, dove siamo arretrati rispetto ai maggiori concorrenti europei, ma il tutto non si può limitare a vendere “un po’ di roba”, tanto più se si tratta di quote di nostre aziende.
Secondo Il Sole 24 Ore, durante la recente visita di Renzi a Pechino il governatore della People’s Bank si sarebbe lamentato del livello del 2%, raggiunto il quale gli investitori devono dichiarare la loro quota alla Consob, chiedendo invece una quota più alta. Ora, può essere comprensibile che il 2% dia fastidio a imprese private costrette a una trasparenza che può svelare i loro piani aziendali, ma che sia un ente statale a chiedere di poter operare in un altro Paese in modo “coperto” mi sembra francamente pericoloso. E ancor più pericolosa la risposta di Renzi che, scrive il Sole, sembrerebbe aver promesso di cambiare la regola.
I cinesi hanno anche confermato il loro interesse per i titoli di Stato italiani, cosa che rientra nelle loro nuove strategie conseguenti ai cambiamenti di politica internazionale, con il raffreddamento della Cina nei confronti degli Usa e la riduzione dei loro investimenti in titoli statunitensi. I fatti ucraini stanno riavvicinando la Russia alla Cina per quanto riguarda l’energia e Pechino è forse la più interessata alla costituzione di piattaforme finanziarie con gli altri Brics per diminuire l’importanza del dollaro come moneta internazionale.
La struttura statale della Cina è tuttora comunista e ogni attività economica, anche privata, è sottoposta a controllo governativo. Sotto quest’ottica, un investimento sostanzioso nei nostri titoli di Stato non è che una parte, e forse la più politica, della strategia globale di presenza in Italia, accanto agli investimenti azionari e alla sempre più forte presenza di comunità cinesi nel nostro Paese. Difficile dimenticare che la presenza di forti minoranze cinesi condiziona la politica di molti Stati asiatici, come quella russa di molti europei.
Un’ultima osservazione, anch’essa da approfondire: ma i nostri imprenditori dove sono? Le varie famiglie che in questi ultimi anni hanno liquidato le loro imprese, come e dove hanno impiegato i capitali ottenuti dalle vendite? È solo un esempio, ma i proprietari di Krizia, che hanno venduto proprio ai cinesi, sono ancora attivi in Italia? Non per sapere gli affari loro, ma capire come sono finite le loro cose potrebbe servire a capire come finiranno quelle di noi italiani comuni.