Chi ha vissuto in prima persona i cosiddetti Anni di piombo non può che concordare con le seguenti parole, che Souad Sbai usa su queste colonne per definire la strategia terrorista islamista: “instillare nella mente degli europei e degli occidentali la paura di poter essere colpiti da chiunque, dovunque e nelle maniere più inaspettate. Far penetrare negli angoli più remoti del loro inconscio l’idea che il terrorista può nascondersi in chiunque ci passi accanto, eliminando così ogni segno distintivo del nemico: anche lo stereotipo del terrorista viene meno”.

In quegli anni, si era diffusa la coscienza di poter essere colpiti non per quello che si era fatto o detto, ma solo per essere “altro” da loro, anzi, più la vittima era innocente e più il terrore si diffondeva: se l’atto terroristico colpiva qualcuno oggettivamente coinvolto nella lotta rimaneva ovviamente condannabile, ma in un certo senso spiegabile. Si diffondeva quindi anche la diffidenza, perché l’attentatore poteva essere il ragazzo seduto di fianco a te in tram, o la donna di mezza età che incrociavi sul marciapiede, e il sospetto e la paura diventavano la norma.

Questo è il terrorismo e sbaglia chi lo definisce una “guerra asimmetrica”, perché la definizione può adattarsi alla guerriglia o alla resistenza partigiana che, pur in modo irregolare e infatti non coperto dalla Convenzione di Ginevra, rivolgono i loro attacchi contro l’esercito nemico, non indiscriminatamente contro la popolazione civile. Quando lo fanno, compiono atti di terrorismo, non di resistenza.

La definizione di atto terrorista non porta tuttavia a una parallela e univoca definizione di terrorista, perché questi atti non sono fine a se stessi, ma hanno una premessa e un obiettivo, e chi li condivide parla di patrioti o martiri, non di terroristi.

Per quanto ovviamente positive siano le prese di distanza di molte istituzioni e comunità islamiche, non si possono dimenticare le folle islamiche che, qualche anno fa, chiedevano nelle piazze la morte dei responsabili delle vignette su Maometto. Non mi ricordo di particolari condanne a quel tempo e permane la sensazione che una buona parte del mondo musulmano consideri l’eccidio al Charlie Hebdo non un atto terroristico, ma un’esecuzione di gente che si meritava di essere uccisa.

In altri termini, non sembra corretto definire un atto di terrorismo l’eccidio parigino, che parrebbe piuttosto assimilabile alla categoria degli omicidi politici. Tuttavia, il tragico episodio porta in luce la differenza di reazione tra musulmani, almeno una loro parte, e cattolici, perché anche figure del mondo cristiano e in particolare cattolico sono state violentemente derise da Charlie Hebdo, ma nessun cattolico è sceso in piazza a chiedere l’esecuzione dei giornalisti. 

Anche se rimane aperto quantomeno il discorso di dove finisca la libertà di espressione e inizi la gratuita offesa dell’altro e non si capisce perché un’offesa altrimenti punibile debba non esserlo più se posta sotto l’etichetta di “satira”.

Il problema principale rimane comunque all’interno dell’islam e precisamente sulla definizione di cosa sia il “vero islam”: infatti, nelle condanne islamiche dell’attacco a Charlie Hebdo ricorre spesso l’accusa agli attentatori di non rappresentare il vero islam. Per chi non è musulmano non vi è problema ad accettare che questi fatti non appartengano al vero islam, ma dal mondo musulmano stentano ad arrivare definizioni precise, e soprattutto autorevoli, a tal proposito.

Sempre su queste colonne, Massimo Borghesi scrive: “Occorre una revisione che permetta di criticare alla radice la riduzione teologico-politica della fede operata da un’importante corrente dell’islam contemporaneo”. Non si può che essere d’accordo, anche se “la riduzione teologico-politica della fede” sembra essere da sempre il problema centrale dell’islam, non solo di quello contemporaneo, almeno sotto il profilo di una corretta distinzione tra sfera religiosa e politica.

E’ senza dubbio molto importante quanto detto dal presidente egiziano al-Sisi all’Università al-Azhar sulla necessità che l’islam si liberi del fanatismo e lo sostituisca con “una visione più illuminata del mondo”. Il punto è che queste affermazioni non vengono dai religiosi di al-Azhnar, ma da un generale al potere in Egitto a seguito di quello che, tecnicamente, rimane un colpo di Stato, attuato per impedire il tentativo della Fratellanza musulmana, movimento religioso-politico, di instaurare un regime islamico nel Paese.

Andando indietro con la memoria, anche l’islam dell’Iran sotto il regime autoritario dello Shah era di tipo “moderno”, ma è poi stato sostituito dagli ayatollah, e lo stesso si potrebbe dire per l’Iraq di Saddam Hussein o la Libia di Gheddafi, visto quanto è successo dopo il loro abbattimento, o per la Siria di Assad. In questi ultimi tempi, si assiste a una trasformazione della Turchia da Stato laico/laicista, sotto il controllo rigoroso dell’esercito, a uno Stato islamico, sia pure per il momento “moderato”.

Sarebbe grave se la conclusione fosse che un islam “moderato” o “moderno” è possibile solo sotto dittature militari, più o meno efferate, altrimenti prende il sopravvento la riduzione teologico-politica di cui parla Borghesi, come sta accadendo in larga parte del mondo musulmano. Ciò rende essenziale per tutti, musulmani e non, che la domanda sul vero islam abbia una risposta al più presto e senza ambiguità, diversamente ds come è avvenuto finora.