In uno dei precedenti articoli scritti su Saipem, precisamente quello del 13 dicembre scorso, subito dopo la decisione della Russia di rinunciare alla costruzione del gasdotto South Stream, mi ero augurato che Saipem riuscisse a spostare i suoi contratti con Gazprom sul nuovo gasdotto annunciato da Putin durante la sua visita in Turchia, il cosiddetto Turkish Stream. Ora diversi analisti considerano questo uno dei motivi, insieme a un certo recupero nei prezzi del petrolio, del recente boom del titolo in Borsa. Saipem negli ultimi tre giorni ha messo a segno un rialzo di più dell’11%, ridimensionato peraltro ieri da una chiusura in ribasso del 3,75%, in controtendenza con il mercato.
I prossimi giorni diranno se questo calo è il risultato di prese di profitto che non toccano l’andamento positivo di fondo, anche se rimane il fatto che negli ultimi dodici mesi Saipem ha perso più del 50% e vale ora un quinto rispetto ai massimi del 2012. Molte analisi continuano a esprimere dubbi sugli sviluppi futuri di Saipem, dato che il possibile coinvolgimento in Turkish Stream risolverebbe solo il problema delle perdite del 2015 derivanti dallo stop del South Stream, quantificate in circa 1,3 miliardi di euro in meno di ricavi. Non è tuttavia ancora certo che ciò avvenga e in che misura e, inoltre, Gazprom ha già dichiarato che i tempi di realizzazione saranno più lunghi di quelli previsti per il precedente gasdotto.
Sul medio-lungo termine, su Saipem incide anche la decisione di Eni, per il momento solo sospesa, di vendere il pacchetto di controllo, con un sostanziale disinteresse della capogruppo a investire nella società. Per quanto riguarda il prezzo del petrolio, i 60 dollari per barile ipotizzati per il 2015 sono un notevole miglioramento rispetto ai 45 dollari dei giorni scorsi, ma rimangono lontani da quella fascia tra i 90 e i 100 dollari necessaria alla sopravvivenza di gran parte dei produttori petroliferi.
In questo scenario, le società petrolifere stanno annullando o congelando molti progetti di investimento, attuando solo quelli in progettazione talmente avanzata da rendere troppo costosa la loro cancellazione. La conseguenza è una severa crisi non solo per Saipem, ma per tutto il settore delle società di servizi petroliferi. Le due maggiori società del settore, le americane Schlumberger e Halliburton, hanno già annunciato la riduzione di diverse migliaia di posti di lavoro.
Questa situazione di crisi ha già portato ad alcune concentrazioni, a partire proprie dalle due società citate. Lo scorso novembre, Halliburton ha annunciato l’acquisto per 35 miliardi di dollari della Baker Hughes Inc., anch’essa americana, mossa che consentirebbe di conquistare il primo posto del settore, superando Schlumberger.
La contromossa di quest’ultima è arrivata in questi giorni con l’annuncio della conclusione delle trattative per comprare, per 1,7 miliardi, circa il 46% della russa Eurasia Drilling Co., suscitando una certa sorpresa data la tensione attualmente esistente con la Russia e le sanzioni imposte da Usa e Ue. Proprio le sanzioni e il cattivo andamento dei prezzi del petrolio hanno reso molto conveniente la società russa, per la quale gli americani hanno anche un’opzione per l’acquisto dell’intera azienda. Una scommessa sulla ripresa di relazioni normali con la Russia, magari a seguito di un cambiamento di politica estera di Obama nei due suoi ultimi anni?
Comunque sia, su questo sfondo si ripropone il problema del futuro di Saipem che, pur essendo tra le maggiori società del settore, con il procedere delle aggregazioni potrebbe trovarsi improvvisamente troppo piccola. La questione non è perciò riducibile alle pure lecite preoccupazioni finanziarie, o di strategia aziendale, della capogruppo Eni che, non dimentichiamolo, ha come socio di controllo lo Stato. In passato si è parlato di un possibile subentro della Cassa depositi e prestiti o di un suo fondo di investimento, soluzione che manterrebbe in mani italiane il controllo di un’azienda all’avanguardia tecnologica come Saipem. È da vedere, però, quanto Cdp sarebbe in grado di far fronte alla forte esposizione debitoria e, al contempo, ai notevoli investimenti necessari in questo settore.
Una possibilità interessante era stata indicata all’inizio di gennaio da Il Sole 24 Ore, cioè la possibile fusione con Technip, l’azienda francese in cui è già presente un fondo di investimento dell’equivalente della nostra Cdp, costruendo così una grande azienda europea in grado di reggere le sfide della concorrenza. Rimane un’ipotesi da verificare, sia sotto il profilo industriale, sia dal punto di vista aziendale, in passato le due società non sembrano essersi “amate” molto, sia sotto gli aspetti più prettamente politici.
Questi ultimi potrebbero essere pesanti anche per l’altra possibilità ventilata in passato, cioè la vendita a Rosneft, società russa controllata dallo Stato e già presente nell’azionariato di Saras, l’azienda di raffinazione dei Moratti, e in Pirelli. L’esempio di Schlumberger ed Eurasia Drilling, sia pure a parti rovesciate, potrebbe servire da battistrada. Senza dimenticare che sullo sfondo vi sono, tanto per cambiare, possibili acquirenti cinesi, sempre più interessati a investire in Italia, come ha dichiarato recentemente il governatore della Banca centrale cinese, la People’s Bank of China, già azionista di Saipem e di Eni con poco più del 2%.
L’ennesimo risiko cui sembrano destinate le nostre aziende in assenza di qualsiasi parvenza di politica industriale della nostra classe politica.