Un recente voto del Consiglio di Sicurezza dell’Onu ha riportato alla ribalta la questione palestinese, passata un po’ in secondo piano di fronte alle tragedie siriane e irachene. Si tratta della mozione presentata dalla Giordania per conto dell’Autorità Palestinese con cui si chiedeva la costituzione dello Stato palestinese, la conclusione delle trattative di pace entro un anno, l’abbandono entro il 2017 dei territori occupati da Israele dopo la guerra del 1967, la cessazione della costruzione degli insediamenti israeliani e la definizione di Gerusalemme Est come capitale dello Stato palestinese.
La mozione non è stata approvata non avendo ottenuto i nove voti necessari, ma solo otto, con due contrari, Usa e Australia, e cinque astenuti. Come ai tempi della Guerra Fredda, Russia e Cina si sono schierate a favore dei palestinesi, gli Stati Uniti, che avevano minacciato l’uso del diritto di veto, di Israele. I Paesi europei sono andati, come al solito, in ordine sparso, con Francia e Lussemburgo a favore della mozione, Regno Unito e Lituania astenuti.
Ha ragione Filippo Landi, nel suo articolo su queste pagine, a considerare questo esito non del tutto scontato, visti i rapporti tesi tra l’amministrazione Obama e il governo Netanyahu, ma in tal modo si è evitato l’isolamento di Israele e, probabilmente, anche degli Usa che, se avessero utilizzato il veto, sarebbero rimasti esposti all’attacco di tutto il mondo arabo in un momento così difficile. La decisione della Nigeria di astenersi, forse opportunamente motivata, ha evitato questo rischio.
Subito dopo il voto, il presidente palestinese Mahmoud Abbas ha dichiarato di aver avviato la procedura di adesione all’Alta Corte di Giustizia Internazionale dell’Aia, così da poter denunciare Israele per crimini di guerra. Ulteriore dimostrazione di scetticismo verso le trattative bilaterali con Israele e di un sempre più frequente ricorso all’internazionalizzazione della questione.
Malgrado le dichiarazioni a favore dei colloqui e contro ogni internazionalizzazione del conflitto, questo scetticismo pare essere condiviso da Netanyahu, che procede con una pericolosa strategia di conquista e consolidamento del territorio. Secondo quanto riportato da The Times of Israel nel luglio 2014, in una conferenza stampa tenuta solo in ebraico il premier israeliano ha definito impossibile per la sicurezza di Israele la creazione di uno Stato palestinese completamente sovrano, pur ammettendo la possibilità di una parziale sovranità sotto “controllo” israeliano.
Netanyahu ha ricordato di essersi opposto nel 2005 all’abbandono unilaterale di Gaza da parte israeliana, lasciando mano libera agli estremisti di Hamas, e che sarebbe fatale per Israele cedere il controllo di Giudea e Samaria, trasformando questi territori in una Gaza venti volte più grande.
Queste drastiche dichiarazioni trovano una sponda altrettanto pericolosa nelle recenti posizioni di Hamas, che aveva chiesto il ritiro della risoluzione proposta dall’Autorità guidata da Abbas, accusandolo di agire senza consultare il popolo palestinese. In particolare, Hamas non accetta la divisione di Gerusalemme, che sostiene deve essere capitale di uno Stato palestinese esteso a tutta la Palestina.
Un rifiuto totale, quindi, dei due Stati e una rivendicazione dell’intera Palestina, confermata da alcuni esponenti di Hamas durante le manifestazioni dello scorso dicembre per il 27esimo anniversario del movimento. Uno dei fondatori di Hamas, Khalil al-Hayya, ha affermato in quell’occasione che il movimento continua a perseguire l’obiettivo per cui si era costituito, cioè la distruzione di Israele, definito “Un’illusione che deve essere rimossa”.
Pochi giorni dopo queste dichiarazioni, il Parlamento Europeo ha riconosciuto a grande maggioranza “in linea di principio” lo Stato palestinese. Contemporaneamente, il Tribunale Ue ha annullato per “motivi procedurali” l’iscrizione di Hamas nella lista delle organizzazioni terroristiche, decisione non è stata accettata dall’Unione Europea.
Probabilmente non tutto Hamas è sulle posizioni estreme di al-Hayya, ma dall’altro lato sta crescendo in Fatah l’opposizione alle posizioni sostanzialmente moderate di Abbas, rendendo la situazione ancor più caotica. In questo contesto è difficile capire cosa significhi il riconoscimento di uno Stato palestinese. Riconoscimento, oltretutto, ridondante, dato che la sua esistenza, insieme a quella di Israele, è stata sancita dall’Onu quasi settant’anni fa. Né è chiaro come in questo ipotetico Stato potrebbero coesistere fazioni palestinesi che si combattono con accanimento e l’esito più probabile sarebbe una vittoria di Hamas con l’espulsione violenta di ogni opposizione, come già avvenuto nella Striscia di Gaza.
E’ paradossale che la mozione palestinese all’Onu sia stata sostenuta dalla Lega Araba, cioè da Stati che rifiutarono nel ’48 la decisione dell’Assemblea dell’Onu e attaccarono il neonato Israele, rimanendo sconfitti. Da allora al 1967 i palestinesi hanno avuto quasi vent’anni per costruire il loro Stato su un’area più vasta di quella di cui si discute ora, ma hanno preferito continuare nei loro tentativi di distruggere Israele. Sarà bene anche ricordare che la Cisgiordania e Gerusalemme Est, occupate dagli israeliani nel 1967, non erano in mano ai palestinesi, ma alla Transgiordania, che dopo la conquista nel ’48 di quei territori cambiò il nome in Giordania, mentre la Striscia di Gaza era occupata dall’Egitto.
Gli estremisti di Hamas sembrano in fondo i più coerenti con il loro rifiuto della decisone dell’Onu del ’48 e l’obiettivo di riconquistare l’intera Palestina. L’atroce dubbio è che non siano soli nel negare l’esistenza dello Stato di Israele, nonostante le immani sofferenze che questa posizione impone al popolo palestinese e a quello israeliano.