L’Opec, l’associazione di Paesi produttori di petrolio guidata dall’Arabia Saudita, tornerà a riunirsi il prossimo 21 ottobre a Vienna, riunione molto attesa per i possibili sviluppi su questa fondamentale materia prima. Come noto, i prezzi del petrolio si sono praticamente dimezzati rispetto al 2014, mettendo a forte rischio i risultati economici delle società del settore e i bilanci finanziari del Paesi produttori, la maggior parte dei quali ha un punto di pareggio fiscale attorno ai 100 dollari al barile. La stessa Arabia Saudita ha un punto di pareggio di poco inferiore e sta dando fondo alle sue pur notevoli riserve finanziarie.
Rispetto al crollo dello scorso agosto, i prezzi si sono ripresi, ma continuano a rimanere attorno ai 50 dollari, livello di pareggio solo per il Kuwait e per alcuni produttori americani di petrolio di scisto (shale oil). L’aumento viene attribuito a un ritocco della produzione saudita e, soprattutto, a un calo della produzione di Usa e Canada, dove molti produttori da scisto cominciano ad avere problemi di rientro dai forti indebitamenti.
L’andamento dei prezzi continua a essere soggetto a forte volatilità e sulle previsioni per il futuro vi è tra gli analisti una notevole disparità: c’è chi, come Goldman Sachs, non esclude una discesa fino ai 20 dollari al barile e chi dà per probabile una risalita verso i 60 dollari. I fattori influenzanti sono molti e contrastanti e le stesse statistiche su produzione, consumi e riserve non sono univoche.
La domanda globale di petrolio è diminuita a causa della crisi economica e per l’aumento di altre fonti energetiche, come le rinnovabili. Inoltre, i costanti progressi tecnologici, aumentando l’efficienza di utilizzo, portano a una continua riduzione del consumo di prodotti energetici. La battaglia per il mantenimento delle quote di mercato ha indotto la maggioranza dei produttori a mantenere inalterata la produzione, Russia e Stati Uniti compresi (la recente diminuzione di produzione Usa segue un precedente aumento di produzione), generando sovrapproduzione e incremento delle riserve. Come accennato, tuttavia, i dati in proposito non sono del tutto certi e in continua revisione anche per gli Stati Uniti.
Alla prossima riunione Opec, il Venezuela tenterà, come già in passato, di convincere l’associazione a favorire un aumento dei prezzi, questa volta con l’annunciata proposta di ripristinare fasce di prezzo, con una prima fase a 70 dollari per poi arrivare a 100 dollari al barile. Il punto di pareggio fiscale del Venezuela è superiore ai 100 dollari e il suo bilancio dipende per più del 90% dal petrolio. L’Opec ha dichiarato che la proposta verrà discussa, ma le vengono attribuite scarse probabilità di successo.
Tuttavia qualche segno di riflessione da parte dell’Opec si può intravvedere e in questa direzione può essere interpretato l’invito a otto Paesi non membri a partecipare alla prossima riunione. Questa “apertura” potrebbe essere l’inizio di una politica più “morbida”, alla ricerca di una strategia comune, che permetta di uscire da una situazione sempre più pesante per tutti.
Di per sé, un basso prezzo di materie prime come petrolio e gas porta a una diminuzione di costi per le industrie e per gli altri consumatori (si pensi alle tariffe di gas e luce) ed è quindi è positivo per l’economia. Tuttavia, al di là delle inevitabili viscosità di passaggio dei minori costi, vi è un pesante risvolto negativo per gli Stati produttori e se per Paesi sviluppati ciò può essere costoso ma sostenibile, come nel caso del petrolio del Mare del Nord per il Regno Unito e la Norvegia, diviene catastrofico per Paesi emergenti in larga parte o totalmente dipendenti dal prezzo di queste materie prime.
In assenza di una reale e sostenuta ripresa dell’economia mondiale, il risultato sembra essere comunque in perdita, tanto più che i fattori negativi sono numerosi, a cominciare dalla situazione di guerra esistente in Medio Oriente, area così rilevante per il petrolio. C’è da sperare che nessuno pensi a una guerra generalizzata nella regione che, interrompendo la produzione, porti a un aumento dei prezzi, perché i costi sarebbero decisamente troppo alti. Chi paventa questa possibilità fa presente che da questa tragica soluzione trarrebbero vantaggi gli altri due grandi produttori di petrolio e gas: Stati Uniti e Russia.
Anche senza ipotesi catastrofiche, vi sono altri elementi che possono portare a una compressione dei prezzi, come l’entrata nel commercio mondiale della finora sanzionata produzione iraniana o un soffocamento di questa ripresa per il momento piuttosto labile.
Un altro fattore comincia a preoccupare i Paesi produttori, come traspare da recenti dichiarazioni del ministro per l’Energia del Qatar, cioè la consistente riduzione degli investimenti in esplorazione e ricerca delle società petrolifere, che potrebbe ridurre la futura produzione a fronte di un aumento della domanda. Se i prezzi rimarranno ai livelli attuali ancora per molto sempre di più saranno i pozzi abbandonati perché non più profittevoli e molte società produttrici usciranno dal mercato, come sta già accadendo per lo shale oil negli Usa. Il conseguente calo di produzione e aumento dei prezzi avrebbe perciò un costo economico notevole e rischierebbe inoltre di essere di corto respiro, perché a prezzi più alti potrebbero rientrare produttori ora marginali ma con sufficienti risorse finanziarie.
L’unica via d’uscita sembra quindi essere una decisa ripresa dell’economia a livello globale, cosa che farebbe bene non solo a chi produce petrolio e gas, ma a tutti: chissà se questo tema verrà affrontato a Vienna.