I prezzi del petrolio continuano a oscillare nella gamma 40/50 dollari a barile, circa la metà rispetto a poco più di un anno fa, né sembra debbano uscire tanto facilmente da questa fascia. Almeno per il breve termine, gli analisti sono divisi tra chi prevede ulteriori cali e chi invece una sostanziale stabilità o solo un leggero rialzo.

Anche per il gas naturale si è avuto un andamento analogo e, data l’importanza di questi due combustibili per l’economia globale, si comincia a fare un bilancio su questo crollo dei prezzi. Di certo positivi sono stati gli effetti per le industrie energivore, per i trasporti e per il calo del costo di elettricità, riscaldamento e benzina, anche per i comuni cittadini. Il rafforzamento del dollaro, nel quale vengono quotati i prezzi di petrolio e gas, ha però attenuato i vantaggi per la maggior parte dei Paesi.

Per converso, sono sempre più pesanti le conseguenze negative per le entrate degli Stati produttori, che in larga parte hanno un punto di pareggio superiore agli 80 dollari a barile. Le difficoltà di bilancio stanno mettendo a repentaglio la loro capacità di spesa, con il rischio di conflitti sociali al loro interno. La stessa Arabia Saudita, all’origine dell’attuale guerra dei prezzi, sta dando fondo alle sue riserve valutarie, pur decisamente consistenti.

Molti Paesi emergenti produttori di petrolio e gas stanno soffrendo anche per la generale diminuzione dei prezzi delle materie prime, derivante dal permanere della crisi economica globale. Gli indubbi vantaggi per i Paesi consumatori rischiano di essere progressivamente erosi dal calo delle loro esportazioni verso i Paesi produttori di materie prime, dando luogo a un circolo vizioso.

L’altra vittima della situazione è il settore petrolifero nelle sue varie componenti, dalle attività di ricerca ed esplorazione, a quelle estrattive, di supporto, trasporto e commercio. Il surplus di produzione va a ingrossare gli stock, aumentando i costi di gestione, e la diminuzione dei ricavi rende sempre più insostenibile la posizione delle società più indebitate. Il settore della ricerca ed esplorazione richiede forti investimenti e sono lunghi i tempi richiesti per raggiungere livelli profittevoli di sfruttamento e di recupero dei capitali investiti.

Un segnale evidente della crisi immanente è il consistente taglio agli investimenti in nuovi progetti e la rinuncia o lo slittamento dei programmi già avviati, troppo dispendiosi agli attuali prezzi del petrolio. In questo scenario va inquadrata la decisione della Shell di abbandonare i progetti di ricerca nei mari dell’Alaska, malgrado investimenti già effettuati di circa 7 miliardi di dollari. I costi elevati di ricerca e sfruttamento in ambienti difficili come quello artico richiederebbero infatti prezzi del petrolio ben più alti e hanno indotto la maggior parte delle società a sospendere i loro programmi.

Va controcorrente il quasi contemporaneo annuncio dell’Eni sull’entrata in produzione, già per la fine del 2015, del progetto Goliat nell’Artico norvegese, un investimento di 5,6 miliardi di euro, 65% Eni e 35% la norvegese Statoil. L’enorme piattaforma da 64000 tonnellate è già sul posto, ma per l’inizio dell’attività estrattiva è necessaria un’ultima approvazione delle autorità norvegesi.

Secondo Eni, il progetto ha caratteristiche che lo differenziano positivamente da quello abbandonato da Shell, ma rimangono i dubbi sulla sua redditività agli attuali prezzi, che fanno pensare a una scelta più strategica che immediatamente economica. Mentre Shell cerca di mantenere intatta la propria politica di distribuzione dei dividendi, Eni è stata tra le prime ad annunciarne il taglio, decisione interpretata come segnale di debolezza della società. La presenza nell’Artico, quasi unica a questo punto, unita all’importante scoperta del maxigiacimento di gas al largo delle coste egiziane, rappresenta un forte segnale alla comunità finanziaria.

L’area di Goliat è soggetta a rischi minori rispetto ad altre zone dell’Artico ed Eni ha impiegato tecnologie avanzate che hanno attenuato, ma non eliminato, le riserve degli ecologisti. L’opposizione degli ambientalisti è una delle concause nel progressivo abbandono dei progetti nell’Artico, un’opposizione sempre più forte anche in altre parti del mondo e che ha trovato un sostegno in alcune decisioni di Obama e nell’Enciclica di Papa Francesco.

In questo quadro rientra il deposito presso la Cassazione delle delibere di dieci Consigli regionali per la consultazione popolare sull’abolizione di norme che si ritengono facilitino eccessivamente la ricerca petrolifera a danno dell’ambiente. In particolare, ci si oppone all’autorizzazione delle trivellazioni entro le 12 miglia, il limite delle acque nazionali. Si richiede, inoltre, un maggiore e determinante intervento decisionale delle Regioni coinvolte.

In sintesi, il basso prezzo del petrolio sembra essere ben accetto ai consumatori, avvantaggiati da più bassi costi, agli ecologisti, che vi vedono un deterrente a nuove trivellazioni, e al largo pubblico, che probabilmente non ha in grande simpatia le società petrolifere, i loro ben pagati manager e le connesse manovre della grande finanza. Vi sono, però, altri danneggiati da questi prezzi, a partire dai già citati Paesi emergenti, per il cui sviluppo occorrerà trovare adeguati sostituti a petrolio e gas, per continuare con tutte le industrie collegate al petrolifero, la più parte situate in Paesi sviluppati, ma alle prese con la grave crisi presente. Inoltre, non si può dimenticare che nel settore sono impiegate centinaia di migliaia di persone e i tagli al personale sono già iniziati un po’ dappertutto.

Infine, il blocco degli investimenti e della ricerca di nuovi giacimenti potrebbe avere effetti controproducenti in caso di uscita dalla crisi e di forte ripresa. In più, un regime di bassi prezzi del petrolio rende molte fonti rinnovabili decisamente non competitive, mentre soluzioni più radicali proposte, come l’uso esclusivo di auto elettriche, sembrano ancora di difficile applicazione.

Una via senza dubbio da seguire è il costante e crescente investimento in tecnologie che riducano i consumi di energia, insieme ai necessari interventi per diffondere una sempre più vasta cultura del risparmio e della riduzione degli sprechi. Appare comunque evidente che difendere contemporaneamente e lo sviluppo economico e l’ambiente, senza il quale non può esistere sviluppo, richiede un insieme di iniziative collegate tra loro in tutti i settori, secondo progetti il più possibile coordinati tra i vari attori, con un ragionevole rispetto dei tempi necessari. Senza egoismi suicidi, né ideologiche fughe in avanti.