La minaccia del riscaldamento globale è tornata al centro dell’attenzione non solo per l’Enciclica di papa Francesco, ma per alcuni documenti provenienti da settori ritenuti all’origine del problema stesso. Il catalizzatore è dato dalla prossima conferenza sul clima, che si terrà all’inizio di dicembre a Parigi, con la partecipazione di 195 Stati membri dell’Onu, e che avrà come obiettivo un accordo tra gli Stati per una gestione il più possibile globale delle emissioni di gas serra. La conferenza è denominata Cop21, perché è la ventunesima edizione dell’incontro annuale (Conference of the Parties) tra i membri della United Nations Framework Convention on Climate Change (Unfccc). 

Nel Cop3 del 1997 fu firmato il famoso e discusso Protocollo di Kyoto, a Copenhagen nel 2009 è stato stabilito in 2 gradi centigradi il limite massimo in cui contenere il riscaldamento globale per la fine del secolo, mentre nel 2011 a Durban si è deciso di arrivare alla firma di un nuovo trattato con effetto vincolante per gli Stati aderenti. Questo nuovo accordo dovrebbe essere finalizzato proprio quest’anno a Parigi.

In vista di questo appuntamento è uscito lo scorso giugno il primo documento, una lettera indirizzata al Segretario dell’Unfccc e al ministro degli Esteri francese da sei compagnie petrolifere europee, tra cui la nostra Eni. Le società, dopo aver definito grave la minaccia del cambiamento climatico e aver affermato il proprio impegno nella costante ricerca di soluzioni che diminuiscano le emissioni di gas serra, dichiarano la loro intenzione di collaborare con l’Onu e i governi per risolvere il problema. Dichiarazione che ha sollevato perplessità, se non esplicito scetticismo, tra gli ambientalisti. 

In realtà, il documento pone in rilievo l’esistenza di interessi comuni, per esempio nell’adozione della carbon tax, l’imposta sul carbonio, come strumento principale per la lotta contro il riscaldamento globale. Le società sottolineano, però, che tale imposta deve essere generalizzata e omogenea, per evitare disparità tra le varie aree, provocando una sostanziale concorrenza sleale. 

Le compagnie petrolifere americane non hanno aderito, anzi due grandi gruppi come Chevron ed Exxon hanno preso sostanzialmente le distanze, sia sulla reale consistenza del problema che sulla soluzione proposta. Forse sulla loro posizione ha inciso anche il fatto che gli Usa non hanno ratificato Kyoto a differenza dell’Europa, creando una di quelle aree di disparità menzionate nella lettera. Un altro elemento “concorrenziale” nella lettera è dato dall’invito a passare dal carbone al meno inquinante gas naturale, che sta assumendo sempre più importanza nella produzione delle società firmatarie. 

Tuttavia, anche i produttori di carbone sembrano essersi posti il problema, visto che due dei più importanti, Bhp Billiton e Rio Tinto, hanno firmato un altro documento simile uscito a metà ottobre sotto il patrocinio del Center for Climate and Energy Solutions (C2ES), un’organizzazione indipendente che si dedica al tema dei cambiamenti climatici.

La dichiarazione, anch’essa rivolta alla prossima conferenza di Parigi, è firmata da 14 società con base o forte operatività negli Stati Uniti e che impiegano globalmente più di 1,5 milioni di persone nel mondo. Oltre le due carbonifere, vi sono due società petrolifere (BP e Shell), un produttore di alluminio (Alcoa), il più grande produttore di cemento (Lafarge Holcim), produttori di energia (National Grid, Calpine, Schneider Electric, PG&E) e altre società come Alstom, Siemens, Hewlett – Packard, Intel.

I contenuti e le proposte non sono dissimili da quelli della lettera dei petrolieri europei e indicano come la preoccupazione delle aziende non sia tanto la carbon tax in sé, ma la disomogeneità nella sua applicazione. Il problema sorge in molti Paesi in via di sviluppo, che possono utilizzare queste disomogeneità per privilegiare in modo scorretto le società nazionali.

È evidente anche il desiderio di questi grandi gruppi di partecipare alle decisioni che verranno prese a Parigi, da qui la loro offerta di collaborazione e disponibilità a interventi anche costosi per i loro bilanci. Questi costi sono probabilmente ritenuti inevitabili, quindi diventa importante non essere tagliati fuori dalle modalità di decisione e applicazione. L’accento su modalità precise, generali e omogenee, quindi certe, risponde all’esigenza di poter pianificare a lungo termine i propri investimenti, non di poco momento in questi settori. 

Sempre a metà ottobre si è tenuta, significativamente a Parigi, una riunione della Oil and Gas Climate Initiative (Ogci), organizzazione nata l’anno scorso che comprende le sei firmatarie della lettera di giugno (BG Group, BP, Eni, Shell, Statoil, Total) più la messicana Pemex, l’indiana Reliance Industries, la spagnola Repsol e la Saudi Aramco, e che rappresenta circa il 20% della produzione di petrolio e gas e il 10% della produzione mondiale di energia. Assenti ancora una volta gli americani, sembrano in procinto di entrare nel club i cinesi.

Il documento finale dell’incontro ribadisce quanto già indicato nella precedente lettera, riaffermando l’impegno a collaborare tra loro e con i governi e a continuare a investire nel meno inquinante gas naturale, nel sequestro e immagazzinamento di anidride carbonica, nelle energie rinnovabili e nelle tecnologie tese a ridurre consumi ed emissioni. Continuando, si afferma, quanto già fatto finora: negli ultimi dieci anni i membri dell’organizzazione hanno collettivamente ridotto del 20% le loro emissioni di gas serra. 

Per quanto possano essere viziati da interessi particolari, questi documenti non sono certo da trascurare, dato il ruolo rilevante che questi gruppi hanno nel sorgere del problema, ma che possono avere anche nella sua soluzione.