La recente intervista della Cnn a Tony Blair ha riacceso il dibattito sulla guerra in Iraq del 2003, su due punti in particolare: la questione del possesso di armi di distruzioni di massa da parte di Saddam Hussein e la possibilità di esportare la democrazia con le armi.

Blair ha ammesso che non sono state trovate armi di distruzione di massa in Iraq e ha chiesto scusa per l’errore, dovuto a errate informazioni di intelligence. In realtà, la maggior parte dei commentatori ritiene che le informazioni fossero state volutamente falsificate e che sia Bush che Blair lo sapessero.

Nel 2003 la cosa non era peraltro incredibile perché, come ricordato da Blair, nel 1988 Hussein aveva usato armi chimiche contro i curdi, causando almeno 5mila morti, e il diretto responsabile dell’uso dei gas nervini, un cugino di Hussein chiamato “Ali il chimico”, fu per questo condannato a morte.

Si stima che la repressione contro i curdi abbia causato 180mila morti e fu molto dura anche la repressione verso la maggioranza sciita, che si era ribellata al governo sunnita di Hussein dopo la sconfitta di quest’ultimo nella prima guerra irachena, provocata nel 1991 dall’invasione del Kuwait.

Per limitare queste repressioni, Usa, Uk e Francia imposero due no-fly zones nel nord e nel sud del Paese, per proteggere rispettivamente curdi e sciiti, ancora attive all’inizio della guerra del 2003. Partendo da questa situazione, Blair continua a sostenere che fu una buona cosa abbattere Saddam Hussein, pur con tutto quello che è successo dopo.

Si arriva così al secondo punto: è giusto, o semplicemente possibile, esportare la democrazia con le armi? La risposta è che la democrazia non è “esportabile”: dall’esterno si può solo cercare di favorire la crescita della democrazia in un Paese, ma il compito rimane del popolo coinvolto, perché una democrazia imposta — con le armi, la politica o l’economia — non è più tale e ha comunque vita difficile. Con questi mezzi si può ripristinare una democrazia preesistente, là dove sia stata cancellata da una dittatura, come avvenuto in diversi Paesi europei dopo la sconfitta del nazi-fascismo nella seconda guerra mondiale.

L’intervista a Blair ha riaperto la polemica sulle responsabilità dei neocon, cioè degli intellettuali e politici provenienti dalla sinistra, ma critici nei confronti di essa, e definiti neoconservatori perché comunque su posizioni diverse da quelle dei conservatori tradizionali. Ai neocon presenti nel governo di George W. Bush viene attribuita la responsabilità della guerra contro Hussein, anche se la loro responsabilità è particolarmente evidente nella conduzione del dopoguerra. Qui, infatti, si è manifestata appieno la posizione ideologica per cui basta abbattere il dittatore perché, automaticamente, si instauri la democrazia.

Tuttavia sembra riduttivo ricondurre tutto all’ideologia neocon, perché le radici sono più profonde e vanno alle origini stesse degli Stati Uniti, con l’idea fondante dell’eccezionalismo americano, cioè della particolare ed eccezionale missione affidata agli Stati Uniti di garantire la libertà al mondo intero. Un’idea, o ideologia, a cui non si è sottratta neppure un’icona come John F. Kennedy e da cui invece ha inizialmente preso qualche timida distanza Barack Obama.

Forse proprio quest’incertezza sulla “eccezionalità” americana ha contribuito alla sua politica estera decisamente confusa, ma nel dibattito sulla guerra di Bush in Iraq, cui Obama si oppose, sarebbe bene far notare che gli interventi in Libia e in Siria non sono molto dissimili da quello del 2003, soprattutto nei risultati. E Obama non è ascrivibile ai neocon.

Queste discussioni aprono a un’ulteriore spinosa domanda. Oggettivamente, l’Iraq, la Libia, la Siria dei dittatori appaiono come Stati efficienti e ordinati rispetto al caos originato dalla loro caduta, Stati dove le minoranze, a partire da quelle cristiane, potevano vivere in relativa pace. Constatazioni che non credo possano portare a una rivalutazione di per sé delle dittature, ma piuttosto a una profonda riconsiderazione di come affrontarle.  

Le dittature sono spietate, ma per loro natura “ordinate” e, per quanto paradossale possa essere, lasciano sempre dei rimpianti del tipo “si stava meglio quando si stava peggio”. Questo, però, non è un pregio delle dittature, ma un difetto delle democrazie che le sostituiscono.

Nella fattispecie dell’Iraq, ma vale anche per Siria e Libia, la maggior protezione delle minoranze non è un esito della dittatura, ma della forma laica di quei governi dittatoriali, contrapposta al confessionalismo altrettanto dittatoriale di regimi come l’Arabia Saudita, ritenuti peraltro degni alleati dell’Occidente.

La domanda è quindi spinosa particolarmente per il mondo islamico, che per gran parte appare posto tuttora di fronte alla sola scelta tra una dittatura laica e una dittatura confessionale.