La situazione complessa, per certi versi caotica, in cui versa il mercato petrolifero è stata ben illustrata recentemente da Mauro Bottarelli su queste pagine. Vorrei aggiungere che la confusione parte addirittura dai prezzi del petrolio, cioè il dato su cui si fonda l’attuale “guerra del petrolio”, perché esistono almeno tre tipologie di prezzo.

Il primo è quello ormai frequentemente citato anche sulle testate non specializzate, quel prezzo che oscilla tra 40 e 50 dollari al barile, dimezzato rispetto ai massimi del 2014. È un indicatore fondamentale per i contratti spot o future trattati alle Borse di New York e Londra, un benchmark calcolato da società finanziarie tra le quali la più importante è l’americana Platts che, come Standard & Poor’s, fa parte di McGraw Hill Financial Inc, socio di maggioranza nell’indice borsistico S&P Dow Jones.

Questi prezzi hanno oscillato fortemente all’interno dello stesso 2015, con un minimo attorno ai 40 dollari e un massimo sopra i 60, oscillazioni da prodotto finanziario più che da materia prima fondamentale per la cosiddetta economia reale. Qualche commentatore comincia, infatti, a chiedersi se le dimensioni dell’attuale sovrapproduzione di petrolio giustifichino un crollo simile nei prezzi e tali forti oscillazioni.

I prezzi stabiliti dalla Platts sono simili ai prezzi di chiusura della Borsa, che non dicono molto sui reali prezzi di acquisto delle azioni nel corso della giornata. Ecco quindi la seconda tipologia, il prezzo reale di acquisto del petrolio da parte dei compratori, che senza dubbio ha un punto di riferimento nei suddetti indici, ma che è soggetto a diverse altre condizioni. Questi altri fattori possono portare a variazioni nel prezzo reale consistenti e diverse da Paese a Paese, influenzate anche dalle politiche commerciali dei Paesi esportatori, come risulta dagli esempi citati da Bottarelli riguardo all’Arabia Saudita, ma certamente estendibili a molti altri Paesi.

È da tener presente poi che il prezzo del petrolio è fissato in dollari e il prezzo reale è soggetto, perciò, alle variazioni di questa valuta, la cui recente rivalutazione ha contrastato in modo non marginale il crollo del prezzo per le importazioni dell’Eurozona o del Giappone.

L’Italia è un Paese netto importatore di petrolio, e di gas naturale, e diventa quindi essenziale sapere quali sono i prezzi effettivi ai quali il petrolio viene importato, quali risparmi si sono generati nei costi di produzione di energia e in che misura tali risparmi sono stati trasmessi fino agli utenti finali. Dopo un anno di ribassi, sarebbe interessante vedere come sono variate, per esempio, le bollette dell’energia elettrica o del gas nelle varie regioni italiane, o se anche in Italia vi sono stati i vistosi ribassi nei prezzi della benzina verificati altrove.

Vi è poi una terza tipologia di prezzo del petrolio, anch’essa collegata più che alla materia prima alla finanza, questa volta degli Stati produttori: il prezzo di pareggio fiscale. Con questa espressione si intende il prezzo del petrolio che consente a uno Stato, con gli introiti derivanti dalla esportazione, di mantenere in equilibrio il suo bilancio e intatti i suoi investimenti economici e sociali.

Per buona parte dei Paesi esportatori, compresi Russia e Arabia Saudita, questo prezzo è attorno ai 100 dollari, il doppio dei prezzi attuali. In più, il calo del petrolio e del gas naturale si inserisce in una generalizzata diminuzione dei prezzi delle materie prime, con conseguenze sempre più gravi per molti Stati esportatori, soprattutto emergenti, ma non solo, viste le difficoltà della Norvegia, praticamente l’unico forte produttore di petrolio in Europa.

Viene così riportato in evidenza un tema che in passato aveva dominato le discussioni sulle strategie di sviluppo di quello che allora si chiamava “Terzo Mondo”: i danni della monocultura. L’attuale crisi porta ad accomunare le tradizionali monoculture del caffè o del cacao a quelle, più moderne, del petrolio e del gas naturale. Diversi governi stanno già cercando di operare per una diversificazione delle loro economie, come per esempio Russia e Arabia Saudita, ma il problema dovrà essere prima o poi affrontato globalmente. Né credo potrà essere risolto da accordi di libero scambio come il Ttip, ma richiederà un comune impegno molto più radicale.

Vi è poi un quarto elemento in gioco ed è il costo di produzione del petrolio, che varia moltissimo a seconda delle difficoltà di ricerca ed estrazione: è evidente che il costo di estrazione in Arabia Saudita è di molto inferiore a quello dei giacimenti nell’Artico. Anche i costi di estrazione sono tuttavia un indicatore parziale, perché la messa in produzione di un giacimento petrolifero richiede investimenti rilevanti su periodi prolungati, con notevoli costi finanziari.

Anche la valutazione della convenienza di questi investimenti avviene a lungo ed è basata sulle previsioni dei prezzi futuri, previsioni che in questo momento assomigliano a quelle del lotto. Ciò spiega i considerevoli tagli agli investimenti in ricerca, compreso il costoso abbandono di esplorazioni già avviate, e la continuazione, dall’altro lato, di produzioni in perdita per mantenere quote di mercato e non perdere importanza nel gioco geopolitico che caratterizza questo settore.

Ed è sul piano geopolitico che si profilano i maggiori pericoli, dato che petrolio e gas provengono in gran parte da aree instabili. Altrettanto pericolose sono le situazioni che si stanno creando all’interno di vari Paesi a seguito della contrazione delle entrate da petrolio e il possibile conseguente deterioramento delle condizioni della società.

Una via d’uscita non è facile da trovare, ma si potrebbe almeno tentare, prima che salti tutto.