La prossima conferenza sul clima che si terrà a Parigi nel prossimo dicembre ha provocato, come descritto in un precedente articolo, dichiarazioni di collaborazione da parte di chi, normalmente , è posto invece sul banco degli accusati: compagnie petrolifere e società operanti in settori a forti emissioni di gas serra. Questi operatori, dando per inevitabile l’imposizione generalizzata, e forse inasprita, di una carbon tax per rallentare il riscaldamento globale, si adoperano per evitare, giustamente dal loro punto di vista, una disparità di applicazione nelle varie aree geografiche e la possibile concorrenza sleale di industrie nazionali di Paesi poco rispettosi delle norme ambientali.
Il documento firmato da sei compagnie petrolifere europee, tra cui la nostra Eni, contiene anche un esplicito invito a privilegiare il gas naturale, meno inquinante del petrolio e soprattutto del carbone, vero obiettivo del processo di sostituzione proposto. La sostituzione del carbone nella produzione dell’acciaio non è di facile realizzazione, ma il gas naturale può essere un ottimo sostituto in altre attività, come la produzione di energia elettrica.
Il maggior produttore e consumatore di carbone (più del 45% del totale mondiale) è la Cina, di gran lunga in testa anche nella classifica dei produttori di acciaio, e che è non a caso il Paese con maggior inquinamento. Tuttavia, negli ultimi tempi il Governo cinese ha deciso di porre rimedio alla situazione, introducendo una serie di misure per limitare le emissioni nocive che porteranno a ridurre l’attuale consumo di carbone in Cina.
Queste intenzioni sono state nettamente riaffermate, alla fine dello scorso settembre, dal presidente Xi Jinping durante la sua visita negli Stati Uniti con una dichiarazione congiunta, denominata U.S.-China Joint Presidential Statement on Climate Change, che “segna una ulteriore e più grande pietra miliare nella loro congiunta leadership nella lotta contro il cambiamento climatico“, come si legge sul sito della Casa Bianca. La Cina sembra quindi decisa a ridurre la sua attuale pesante dipendenza dal carbone, con conseguenze rilevanti per produttori ed esportatori, essendo per di più tale atteggiamento comune anche ad altri Paesi.
Durante la presente crisi, il prezzo del carbone ha avuto un andamento simile a quello del petrolio e già ora molti produttori sono in difficoltà: un rallentamento delle importazioni dalla Cina (secondo i dati Eia, più del 20% delle importazioni totali di carbone nel 2012) aggraverebbe sensibilmente la situazione. La recente decisione del Giappone, altro forte importatore di carbone, di riattivare la sua produzione di energia nucleare costituisce un altro segnale non positivo, così come il notevole aumento del ricorso a fonti rinnovabili un po’ dappertutto, compresa la Cina stessa.
Dall’ulteriore contrazione della domanda verrebbero colpiti in particolare due Paesi, che sempre secondo l’Eia contavano insieme più del 50% delle esportazioni: Indonesia e Australia, seguite nel 2012 da Russia, con circa il 10%, e Usa. In Europa, non considerando la Russia, il Paese più “carbonifero” è la Germania, sia per produzione che per consumo, che nel 2012 ha dovuto importare circa il 20% del suo consumo, un po’ più in quantità del Regno Unito, che però importava il 70% del suo fabbisogno. Questi movimenti hanno minore importanza per l’Italia, dove il peso del carbone è di molto minore, essendo particolarmente elevato il ricorso al gas naturale.
È probabile che la contrazione dei consumi di carbone continui nei prossimi anni, operando una decisa selezione dei produttori sulla base di costo e qualità del prodotto. Tuttavia, è altrettanto probabile che continui lo sviluppo tecnologico teso a rendere meno inquinante l’utilizzo del carbone, come già avvenuto in molti Paesi, un processo che anche la Cina sembra intenzionata a percorrere.
Il carbone, una volta re dei combustibili, verrà quindi ridimensionato, ma manterrà un’importanza non irrilevante nel mix energetico, forse, in futuro, anche dell’Italia.