Come previsto dagli osservatori, la riunione di Vienna dell’Opec non ha portato a cambi di strategia, anzi ha aumentato il plafond di produzione dell’organizzazione, da 30 milioni di barili al giorno a 31,5 milioni. L’Iran ha infatti deciso di aumentare la propria produzione di 500.000 barili al giorno e, dopo sette anni di assenza, rientrerà nell’organizzazione l’Indonesia. Non essendo i Paesi membri vincolati a tali limiti, la produzione effettiva dell’Opec è già attualmente a quei livelli, rendendo del tutto improbabile ogni prospettiva di riduzione della sovrapproduzione, a meno di cataclismi, particolarmente geopolitici. Infatti, ogni discussione sul petrolio coinvolge sia fattori economici che politici.

Opec e il marketing saudita. Le divisioni all’interno dell’Opec sono diventate talmente forti e il dissidio di interessi talmente evidente da porre a rischio l’esistenza stessa del cartello, ancora responsabile di circa il 33% della produzione totale. In discussione è anche la sua capacità di influenzare realmente i prezzi in uno scenario totalmente diverso dal passato, un passato in cui il punto principale di discussione era l’avvicinarsi dell’esaurimento delle riserve petrolifere, mentre ora si stanno riducendo significativamente gli investimenti per la ricerca di nuovi giacimenti.

La decisione di non ridurre la produzione imposta all’Opec dall’Arabia Saudita, che pesa per circa un terzo nell’organizzazione, ha diviso i Paesi membri in due fazioni opposte: da una parte l’Arabia e i suoi alleati del Golfo, Qatar, Emirati Uniti e Kuwait, dall’altra una serie di Stati sudamericani o africani, come Ecuador, Venezuela, Algeria, Angola e Nigeria, che hanno molto meno la capacità di sostenere questi livelli di prezzo.

La strategia saudita si configura come una specie di dumping, vendere in perdita per eliminare concorrenti dal mercato, diretto a indebolire il principale attuale produttore di petrolio, la Russia, ma soprattutto a impedire il consolidamento dell’industria dello shale oil negli Stati Uniti, diventati negli ultimi anni il terzo produttore a ridosso di Russia e Arabia Saudita. Le azioni di dumping sono però costose e, malgrado le sue notevoli riserve finanziarie, l’Arabia stessa sta iniziando a fronteggiare problemi di bilancio, data la resistenza dimostrata dai suoi avversari, soprattutto dall’industria americana del petrolio di scisto.

L’Arabia Saudita, peraltro, si dichiara disposta a rivedere la sua strategia, ma chiede che anche gli altri produttori, dentro e fuori l’Opec, accettino di ridurre le loro produzioni. In attesa di una netta ripresa dei consumi, la riduzione della produzione potrebbe aver significativi effetti sui prezzi solo se seguita da una parte consistente dei produttori, per esempio da Opec, Russia e Stati Uniti, che rappresentano insieme più del 50% della produzione mondiale. Russia e, all’interno dell’Opec, Iran e Iraq si sono dichiarati non disponibili a tale richiesta: come si è visto, l’Opec ha addirittura aumentato il proprio plafond di produzione. Si è scatenata nel contempo una guerra “promozionale”, a colpi di sconti sui prezzi effettivi, tra Russia, Iran, Iraq e Arabia sui mercati asiatici ed europei, che introduce un altro importante elemento, quello geopolitico.

Il fattore geopolitico. Sotto questo profilo la situazione presenta aspetti paradossali: gli Stati Uniti, alleati dell’Arabia Saudita, sono l’obiettivo ultimo della guerra scatenata dai sauditi, mentre Stati Uniti e Russia, che si confrontano duramente su molti altri fronti, hanno qui un interesse comune nel contrastare la strategia saudita. Di particolare interesse sono le iniziative saudite per contrastare la Russia in Europa, con una politica di sconti sui prezzi che ha subito trovato una risposta positiva, non a caso, nella Polonia che, come altri Stati dell’Europa orientale, vuole liberarsi dal dominio petrolifero russo. La mossa rischia di creare ulteriori difficoltà all’unico grande produttore europeo, la Norvegia, i cui conti sono già notevolmente in crisi per il basso prezzo del Brent, e si può supporre non sia particolarmente gradita neppure alla Germania, impegnata nel raddoppio del Nord Stream per l’importazione del gas russo.

L’altro fronte geopolitico è aperto all’interno dell’Opec con Iraq e soprattutto Iran, capofila del mondo sciita e in guerra con l’Arabia Saudita, sia pure per procura, in Siria e soprattutto in Yemen, che sta costando parecchio ai sauditi. L’Iran ha già invitato diverse compagnie petrolifere straniere a coinvolgersi nella rimessa in produzione dei vecchi giacimenti e nella ricerca di nuovi per riportare la produzione ai livelli precedenti le sanzioni.

Inoltre, l’Iran ha avviato con società cinesi trattative per aumentare le proprie esportazioni verso la Cina, che è prevedibile vadano a buon fine, dato che Pechino è, con Mosca, il principale sponsor di Teheran. Anche in questo caso, gli Stati Uniti si trovano dall’altra parte rispetto all’alleato saudita, visto che l’Iran torna sul mercato a seguito dell’accordo sul nucleare voluto da Obama.

Diversi osservatori segnalano la possibilità di rivolgimenti all’interno del regno saudita, sia per tagli al welfare conseguenti alla guerra del petrolio, sia per la guerra sotterranea che sarebbe in corso all’interno dell’estesa famiglia reale per la successione all’attuale re, più che ottantenne.

Si aggiunge qui un ultimo paradosso, perché due giorni prima dell’incontro di Vienna, in un’analisi resa pubblica dal Bnd, i servizi segreti tedeschi, si affermava che il trentenne figlio del re, Mohammed bin Salman, secondo nella successione al trono, ministro della difesa e supervisore della politica petrolifera, era il protagonista di un’aggressiva strategia diretta a far diventare l’Arabia Saudita la principale potenza regionale, anche con misure militari. Si segnalava anche il pericolo che il ruolo assunto dal principe potesse creare forti opposizioni in una parte della famiglia reale, con il rischio di instabilità all’interno della stessa monarchia. Questa analisi è stata sconfessata il giorno dopo da fonti ufficiali del governo, in particolare dal ministero degli Affari Esteri.

Il Bnd dipende formalmente dall’ufficio del Cancelliere, cioè da Angela Merkel: insubordinazione o gioco delle parti? Comunque, un altro intrigo in questa intricata vicenda.