I commenti sulla vendita di quasi l’8% di Mediaset da parte di Fininvest potrebbero limitarsi alla costatazione che, in periodo di crisi, le aziende sono costrette a far cassa. L’andamento dei conti del gruppo che fa capo alla famiglia Berlusconi giustificano una simile osservazione, tanto più tenendo conto del salasso dei quasi 500 milioni di euro versati a De Benedetti in conseguenza della sentenza sulla vicenda “lodo Mondadori”.

Il collocamento, avvenuto giovedì scorso in Borsa con procedura accelerata e con acquirenti investitori istituzionali, porterà nelle casse Fininvest quasi 400 milioni di euro e una plusvalenza di quasi 180 milioni. Il valore delle azioni Mediaset è aumentato notevolmente negli ultimi mesi e Fininvest ne ha tratto profitto, tanto più che mantiene comunque il controllo della società con il 33,4% delle azioni.

Vista così la vicenda, non si può che dar fede al comunicato della capogruppo, che parla di rafforzamento patrimoniale e di agevolazione di “eventuali investimenti in un’ottica di diversificazione del portafoglio azionario”. Ed è questa frase che apre prospettive diverse e più ampie, con la ripresa di ipotesi ripetutamente fatte negli ultimi tempi su una ristrutturazione del gruppo.

Una prima “scuola di pensiero” ritiene probabile la vendita di Mediaset, anche per il fallimento del patto del Nazareno e il passaggio all’opposizione di Forza Italia. Sono perfino circolate voci di dimissioni minacciate da Fedele Confalonieri per spingere Berlusconi a ripristinare l’alleanza con Renzi, voci smentite dall’interessato. I possibili acquirenti sono stati identificati in Sky e Telecom, ma la prima ipotesi presenta, a mio parere, diversi punti difficili, a partire dalla situazione politica. È tutto sommato facile tenere sotto scacco Berlusconi, capo di un partito politico, ma Murdoch si presenta come un osso molto più duro. Inoltre, l’acquisizione di Mediaset da parte di un gruppo straniero rischierebbe di rimettere in discussione gli equilibri televisivi e forse lo stesso Murdoch sarebbe il primo a farlo. Infine, è da ritenere che l’interesse di Sky sia non tanto nelle tv generaliste, bensì sulla sola Mediaset Premium, sua diretta concorrente.

Per quanto riguarda Telecom, l’acquisizione di Mediaset potrebbe aver senso sotto il profilo industriale, ma il gruppo telefonico deve ora come ora fronteggiare problemi più seri nel suo mercato principale, in cui fusioni e concentrazioni sono all’ordine del giorno. Telecom Italia, invece, rimane troppo piccola e presente sostanzialmente in soli due paesi, Italia e Brasile: nel primo, si trova di fronte ai forti investimenti necessari per lo sviluppo della banda ultralarga, resi difficili dal suo alto indebitamento; nel secondo, deve affrontare un processo di concentrazione del mercato e deve ancora decidere se essere preda o cacciatore.

A tutto questo si aggiunge un azionariato in via di definizione, da cui dovrebbero uscire quanto prima i soci italiani (Generali, Mediobanca e Banca Intesa) della disciolta Telco, già azionista di maggioranza relativa, mentre la quota della spagnola Telefonica (8% dei diritti di voto) è passata alla francese Vivendi, dopo che questa ha venduto agli spagnoli Gvt, sua partecipata brasiliana.

Da qui parte la seconda linea di pensiero. Vivendi è una conglomerata nel settore media, con al suo interno Canal +, pay-tv e produttore di contenuti, operante anche in Africa, Polonia e Vietnam, e Universal Music Group, leader mondiale nel mercato musicale. Vivendi ha recentemente portato a termine una serie di dismissioni nella telefonia, rimanendo però con quote di minoranza nelle società vendute, come nel caso di Gvt, da cui deriva la partecipazione in Telecom Italia.

L’artefice di questa strategia è il finanziere bretone Vincent Bolloré, presidente e azionista “forte” di Vivendi, a capo di un gruppo familiare con interessi che vanno dal trasporto e stoccaggio di combustibili, alla logistica e alla comunicazione, non solo con la partecipazione in Vivendi, ma anche con Havas, società attiva nella pubblicità e nei media. Bollorè, il cui gruppo ha fatturato nel 2014 più di 10 miliardi di euro, è noto in Italia per essere il secondo azionista di Mediobanca, dopo Unicredit.

Vivendi dispone ora di un’ampia liquidità, stimata in circa 5 miliardi di euro, cioè più della capitalizzazione di Mediaset. La strategia dichiarata di Vivendi è di espandersi internazionalmente, prioritariamente in Africa, dove Bollorè ha estesi interessi personali, e Asia. L’Italia non parrebbe inclusa, ma gli interessi del finanziere bretone nel nostro Paese, come visto, sono tutt’altro che marginali.

Anche per Vivendi l’obiettivo principale sarebbe Mediaset Premium, ma forse sarebbero minori le resistenze a una sua entrata anche nelle televisioni e, comunque, la sua presenza in Telecom Italia porterebbe a maggiori sinergie. In Premium è presente Telefonica con circa l’11%, conseguenza della vendita da parte di Mediaset di Digital Plus in Spagna. Questo potrebbe essere un problema, oppure potrebbe dar luogo a una collaborazione a tre fra Vivendi, Telefonica e Mediaset, con sullo sfondo i collegamenti con Telecom Italia e le altre società telefoniche partecipate dai francesi e dagli spagnoli.

Insomma, un conglomerato dell’Europa latina che potrebbe, una volta tanto, dar del filo da torcere a “quelli del Nord”.