L’articolo di Giulio Sapelli su Il Sussidiario ha delineato il panorama geopolitico in cui si inserisce l’Asian Infrastructure Investment Bank (Aiib) lanciata l’anno scorso dalla Cina per sostenere lo sviluppo delle infrastrutture in Asia, segnatamente trasporti, energia e telecomunicazioni. Alla Cina si sono aggiunti altri venti Stati, ma molti altri sono stati invitati a diventare membri fondatori della banca e l’invito scade il prossimo 31 marzo.

Particolare scalpore ha provocato, alla fine della scorsa settimana, la decisione della Gran Bretagna di entrare a far parte del club e ieri è arrivata la notizia dell’adesione anche della Germania e della Francia. Questa decisione era stata anticipata qualche giorno fa dal Financial Times, che parlava anche dell’Italia e la Reuters, nei lanci relativi a Germania e Francia, citava un funzionario del ministero delle Finanze francese che affermava l’esistenza di concertazioni tra i tre governi. Alla fine, anche il nostro governo ha confermato l’adesione dell’Italia alla Aiib.

Ci si può quindi aspettare una recrudescenza delle critiche già espresse dagli americani dopo la decisione inglese. Il governo degli Stati Uniti non si dichiara contrario all’Aiib di per sé, ma avanza molti dubbi sulla trasparenza e l’aderenza alle regole cui si adeguano gli altri organismi internazionali (leggi Banca Mondiale e Fmi), invitando i vari Stati ad attendere che le regole di gestione della nuova istituzione vengano chiarite, cosa che avverrà solo nel corso di quest’anno.

Si è tuttavia obiettato che proprio per assicurare il recepimento di queste regole è opportuno entrare nella banca, piuttosto che criticare dall’esterno. La discussione è diventata subito politica, perché dagli Usa si è apertamente criticato il governo inglese per essere troppo “accomodante” verso la Cina, per puro interesse commerciale ed economico, come dimostrato dal sostanziale silenzio mantenuto nei confronti delle recenti proteste a Hong Kong. Si sono avanzate anche critiche a quella che è stata definita una scelta unilaterale, ma il Governo inglese ha risposto che nel processo di decisione sull’adesione all’Aiib vi è stato un costante collegamento con il ministero del Tesoro americano.

Uno scontro che ha colto molti commentatori di sorpresa per la sua aperta durezza, sintetizzata da una frase di un portavoce di Cameron, che definisce normale che il Regno Unito possa prendere decisioni diverse da quelle degli Stati Uniti e quella sulla banca “Pensiamo che sia nell’interesse nazionale dell’UK”. Anche il ministro del Tesoro, George Osborne, ha dichiarato: “Una parte essenziale del nostro programma economico a lungo termine è stabilire legami tra l’UK e le economie asiatiche per dare alle nostre imprese la migliore opportunità di lavorare e investire nei mercati che stanno crescendo più velocemente.” Come dire, gli americani si fanno gli affari loro e noi ci facciamo i nostri.

Al di là delle ventilate questioni di trasparenza e correttezza, i timori degli Usa verso questa continua espansione della Cina non sono del tutto infondati, tanto più che nell’area del Pacifico sono rimasti fuori solo tre grandi Stati, Giappone, Corea del Sud e Australia, ma questi due stanno comune discutendo con la Cina su una possibile adesione, il che lascerebbe Usa e Giappone isolati.

La mossa cinese è vista come un attacco alle istituzioni finanziarie dominate dagli Stati Uniti, Fmi, Banca Mondiale e Asian Development Bank, ma diversi commentatori, anche tra quelli critici sull’Aiib, segnalano le forti responsabilità americane, in particolare del Congresso che ha rifiutato la proposta di Obama, sostenuta anche dagli europei, di rivedere la governance interna di queste istituzioni per renderle più adeguate ai pesi oggettivi dei vari Stati membri.

In effetti, in tutti questi enti il peso della Cina è del tutto inadeguato alla sua vera, e crescente, potenza economica: nella Asian Development Bank, Usa e Giappone hanno rispettivamente il 15,7% e il 15,6% rispettivamente, contro il 5,5% della Cina. D’altro canto, molti paesi cominciano a essere insofferenti verso le modalità di intervento di Fmi e Banca Mondiale e la Cina si è affrettata a sottolineare come, spesso, si risolvano in una perdita di sovranità dei Paesi “salvati”.

Paradossalmente, la fine della Guerra fredda ha trovato più impreparato alle sue conseguenze l’Occidente “vincitore” rispetto agli “sconfitti”, perché qui gli apparati concreti di potere sono rimasti al governo, anche dopo la caduta dell’ideologia cui si riferivano. Al contrario, Stati Uniti e Stati europei sono stati incapaci di elaborare una politica estera comune, né la creazione dell’Unione europea ha migliorato le cose. Inoltre, sono alla base di una gravissima crisi economica da cui sembra molto difficile uscire e che ha dato più forza ad altri sistemi economici, che ora cercano di approfittare delle nostre debolezze.

La Aiib rappresenta anche un contraltare al Tpp (Trans-pacific Partnership), l’accordo di libero commercio che dovrebbe unire, nelle intenzioni di Washington, buona parte dell’area del Pacifico a esclusione della Cina. Molti Paesi dell’area sono posti di fronte alla scelta tra i due schieramenti e la sensazione che molti di loro tenteranno di far parte di entrambi. Un po’ come i “Paesi non allineati” durante la Guerra fredda che giocavano su entrambi i tavoli.

Con l’entrata di Stati europei nella nuova banca, la Cina di fatto mette una zeppa all’altro braccio della tenaglia Usa: il Tttip (Transatlantic Trade and Investment Partnership), che dovrebbe unire in una zona di libero scambio gli Stati Uniti con l’Europa, a esclusione della Russia. Non a caso, Cina e Russia stanno collaborando tra loro per costruire centri finanziari alternativi al dominio statunitense e del dollaro. Sotto questo profilo è interessante la dichiarazione di Osborne su Londra pronta a fare da clearing house, da stanza di compensazione al di fuori dell’Asia, per lo yuan, la moneta cinese.

Mi spiace per i sostenitori della “fine della Storia” dopo la caduta del Muro, ma la Storia sembra continuare, pur in una direzione non tanto chiara e non chiaramente positiva e, forse, non come vorremmo.