L’omicidio venerdì sera a Mosca di Boris Nemtsov potrebbe rappresentare l’ultimo di una serie, non scarsa, di assassini politici in Russia, dei quali i più noti sono quelli di Alexandr Litvinenko, avvelenato con il polonio a Londra, e di Anna Politkovskaya, uccisa a Mosca, entrambi nel 2006.
Anche Nemtsov era un oppositore di Putin e del suo regime, esponente di quell’area liberale, o democratica, che aveva avuto un ruolo rilevante durante il periodo di Eltsin, in cui Nemtsov era arrivato a ricoprire la carica di vicepremier, e che è stata relegata all’opposizione da Putin.
Non vi è dubbio che Putin stia dando una impronta sempre più autoritaria al suo modo di governare e che si siano raffreddate le attese sorte in molti nel 2011 di un’evoluzione verso una maggiore democrazia, dopo elezioni che avevano ridimensionato il consenso a Putin. In questo quadro, parrebbe logico attribuire l’uccisione di Nemtsov a Putin, almeno come mandante, ma questa volta la situazione pare un po’ più complicata.
Nemtsov stava raccogliendo prove sulla presenza militare russa in Ucraina, che avrebbe illustrato durante la dimostrazione di domenica scorsa contro questa guerra, divenuta poi un tributo alla sua memoria. Tuttavia, l’uccisione di Nemtsov sembrerebbe avere un costo decisamente maggiore per Putin, perché queste informazioni avrebbero sempre potuto essere contestate e, inoltre, la presenza di militari russi in Ucraina viene ormai data per scontata.
Sembra anche poco congruente il luogo dell’attentato, a pochi passi dal Cremlino, e lontano dallo stile di un ex Kgb come Putin. Quindi, se non è certo da escludere la mano dello “zar” dietro questa uccisione, non sono da escludere almeno alcune delle altre ipotesi fatte dagli stessi inquirenti (che ovviamente non prendono in considerazione l’ipotesi Putin).
Non poteva mancare il coinvolgimento della Cia nel tentativo di destabilizzare la Russia, ma anche qui c’è qualcosa che non convince a fondo. Malgrado l’avventatezza dimostrata in Siria e Libia, credo che anche Obama capisca quanto sia pericoloso destabilizzare la Confederazione russa senza avere già pronta una soluzione sostitutiva, che francamente sembra difficile da scorgere. Né più plausibile è l’ipotesi di un tentativo di mettere in “cattiva luce” Putin: l’anno dopo le uccisioni di Litvinenko e Politkovskaya, Putin e il suo partito vinsero alla grande le elezioni.
Ciò che può mettere in serio pericolo Putin è il crollo dell’economia russa, ma se questo dovesse avvenire a seguito delle sanzioni americane, potrebbe far ricorso allo slogan sulle “inique sanzioni” di mussoliniana memoria. Gli Stati Uniti, così fieri del loro “eccezionalismo”, non sembrano tener in alcun conto l’equivalente forte senso nazionale russo, che fu un forte alleato perfino per la dittatura sovietica durante la seconda guerra mondiale.
La conduzione della delicata questione ucraina da parte di Obama e dei suoi partner europei sta a dimostrare questo assunto e ha fornito una grossa mano a Putin e al rafforzamento del suo regime, che sta sfruttando a fondo il sentimento nazionale, e perfino religioso, russo.
Quella di Kiev è un’altra pista degli inquirenti, che ipotizzano un’iniziativa dei “nazisti” ucraini per trasformare in martire un sostenitore dell’indipendenza dell’Ucraina e tentare così di minare alla base ogni tentativo di soluzione concordata della questione ucraina. Insomma, un “tanto peggio, tanto meglio” di togliattiana memoria.
Tuttavia, per cercare interessati alla destabilizzazione della Russia, o comunque all’indebolimento di Putin, non occorre andare fuori dalla Federazione. Putin è sostenuto da una serie di oligarchi, la maggior parte provenienti dal vecchio sistema di potere sovietico come lui, posti nei punti nevralgici della politica e dell’economia. Le “liberalizzazioni” postsovietiche sono state una spartizione delle ricchezze statali tra costoro, in Russia come in tutti gli Stati ex sovietici, e non si può escludere che l’omicidio sia un esito di una lotta di palazzo in corso in questa corrotta oligarchia.
Putin gode tuttora di un forte appoggio popolare, costituito da segmenti molto diversi tra loro. Due di questi sono anche rappresentati da raggruppamenti concorrenti del suo partito, Russia Unita: i comunisti (19,20% alle ultime elezioni) e i nazionalisti di destra (11,68%). Pur opposti tra loro, costoro sono uniti nell’appoggio a Putin dalla nostalgia, gli uni per la potenza mondiale che era l’Unione Sovietica, gli altri per la “grandezza russa” che, prima ancora dell’Urss, era assicurata dagli zar. Alla base dell’ipotesi del coinvolgimento di queste forze sta il tentativo di forzare la mano al governo e di evitare “debolezze” nei confronti dei nemici esterni, in primis gli Usa, avversati da entrambi.
Dovranno essere gli inquirenti ad accertare fatti e responsabilità, ma la dichiarazione di Putin di voler seguire personalmente l’inchiesta è sembrata a molti un segnale inviato a una magistratura che già appare piuttosto indifesa nei confronti del potere politico, esattamente il contrario di quanto accade in Italia.
La situazione descritta dovrebbe invitare Washington e Bruxelles a una maggiore prudenza nel giudicare in casa altrui e a evitare di salire sul pulpito per assegnare etichette di buono e cattivo. Le recenti esperienze in Siria e Libia dovrebbero insegnare qualcosa, se non altro che la politica richiede che i problemi vengano affrontati avendo una soluzione migliore del problema che si vuole risolvere.