Qualche giorno fa Standard and Poor’s ha tagliato il merito del debito di Eni da A ad A-, portando però l’outlook a stabile dal precedente negativo. Le ragioni addotte sono di tipo generale, il basso prezzo del petrolio, e più direttamente connesse alle caratteristiche del gruppo, in particolare al suo operare in diverse zone “calde”, a partire dalla Libia. L’esclusione a breve di un ulteriore diminuzione del rating sembra riconoscere a Eni una sostanziale validità delle sue strategie, a cominciare dalla diversificazione delle attività, anche se ciò comporta i rischi già citati della presenza in zone turbolente, e dalle operazioni finanziarie dirette a contrastare la caduta dei profitti, tra cui le dismissioni previste per circa 8 miliardi di euro, la riduzione degli investimenti e la diminuzione dei dividendi distribuiti.
La diminuzione dei dividendi, al pari del taglio degli investimenti, è una decisione presa anche dalle altre società petrolifere, che ha creato l’ovvio scontento degli azionisti e cali nelle quotazioni di Borsa. Ha pertanto riscosso molte critiche il fatto che, al contrario, tendono invece ad aumentare gli emolumenti dei capi delle majors petrolifere, come illustrato in un recente articolo di Bloomberg.
Il fattore principale rimane comunque il prezzo del petrolio, che in meno di un anno è precipitato da più di 100 dollari al barile all’attuale area di oscillazione attorno ai 50 dollari. Sulla base dei prezzi di questi ultimi giorni, per la verità, la tendenza al ribasso sembrerebbe essersi arrestata e il prezzo del Brent (il petrolio di riferimento del Mare del Nord) si è riportato per la prima volta attorno ai 64 dollari e quello del Wti (l’atro petrolio di riferimento per i prezzi, quello del Texas) ha raggiunto i 57 dollari a barile.
Rimane da vedere se si tratta solo di una fiammata speculativa o se si è in presenza di un’inversione del trend e la risposta non è facile, dati i molteplici fattori che influenzano i prezzi del petrolio. Finora le opinioni prevalenti erano di una persistenza di prezzi bassi per almeno un paio di anni, dovuta alla decisione dell’Opec, l’associazione dei produttori che conta per metà delle riserve mondiali di petrolio e gas, di mantenere inalterata la produzione. Come è noto, dietro questa decisione c’è l’Arabia Saudita che ha intrapreso una vera e propria “guerra del petrolio” per conquistare ulteriori quote di mercato e per bloccare gli Stati Uniti, nuovo e pericoloso concorrente con il suo petrolio di scisto, o shale oil.
Si stanno però aggiungendo ora altri fattori che potrebbero portare a un diverso andamento dei prezzi. È probabile che nella prossima riunione dell’Opec, a giugno, gli altri membri meno forti finanziariamente cerchino di imporre ai sauditi una riduzione della produzione per risollevare le quotazioni, rendendole più adeguate ai propri costi di produzione e alle esigenze finanziarie degli Stati. In molti casi, infatti, il punto di pareggio è molto più elevato, aggirandosi attorno agli 80/90 dollari a barile, quando non addirittura sui 100 dollari, come per Venezuela, Iran e Russia.
Secondo alcuni commentatori, i rialzi degli ultimi giorni sono dovuti alla guerra nello Yemen, dove è impegnata direttamente l’Arabia Saudita e, indirettamente, l’Iran, che sostiene i ribelli sciiti. La concorrenza tra le due potenze petrolifere si è spostata sul terreno di uno scontro armato, che potrebbe mettere a repentaglio la continuazione stessa dell’Opec. D’altra parte, come è stato fatto notare, questa associazione ha ormai rinunciato al proprio ruolo di stabilizzatore del mercato petrolifero e sembra ora rispondere solo agli interessi particolari dei singoli Stati.
Lo Yemen è importantissimo per l’Arabia Saudita, perché se passasse nell’area iraniana, Teheran potrebbe controllare le rotte petrolifere a danno dei concorrenti arabi del Golfo. Ancora una volta il petrolio è alla base di una guerra, ma questa volta sono gli Stati produttori a provocarla e non le società petrolifere occidentali che, anzi, stanno soffrendo per il calo dei prezzi.
Risulta tuttavia difficile, ora come ora, ipotizzare un ritorno dei prezzi ai livelli di un anno fa, se si tiene conto di tutti gli elementi in gioco. Se le trattative sul nucleare andranno definitivamente in porto e le sanzioni verranno ridotte o eliminate, l’Iran potrà esportare molto più petrolio, ostacolando così un aumento dei prezzi. Per converso, un aumento dei prezzi renderebbe conveniente l’estrazione del petrolio di scisto da tutti i numerosi pozzi già scavati negli Stati Uniti, ma non ancora messi in produzione, mettendo ancora una volta sotto pressione il mercato.
Inoltre, gli attuali prezzi del petrolio stanno riducendo gli investimenti in nuove ricerche e portano alla rinuncia a sfruttare i giacimenti meno redditizi, ma le conseguenze di questa minore offerta si sentiranno nel più lungo termine, perché nel breve sono ampiamente compensate dalle forti riserve esistenti e che devono essere smaltite. D’altro canto, il prezzo basso del petrolio aiuta le economie dei paesi importatori e i settori ad alto consumo di energia, portando però altre conseguenze non positive, come la messa fuori mercato di fonti alternative che divengono a loro volta troppo costose.
L’impressione è che ciò che sta avvenendo nel settore petrolifero sia qualcosa di strutturale e non contingente, che richiede una riconsiderazione non solo degli aspetti economici, ma anche, e forse soprattutto, politici. Un quadro che si presenta pericoloso in una situazione di crisi generalizzata come l’attuale e che potrebbe essere affrontato con maggiore serenità solo di fronte a una reale e consistente ripresa economica globale.