Ogni volta che si parla degli ostacoli alla ripresa dell’economia italiana, tra i vari problemi viene costantemente segnalato il notevole ritardo del nostro Paese nello sviluppo della banda larga e ultralarga. Un problema sentito anche dal governo Renzi che, all’inizio di marzo, ha approvato nel Consiglio dei Ministri un documento denominato “Strategia italiana per la banda ultralarga”. Si tratta di un piano decisamente ambizioso che si propone di raggiungere, entro il 2020, l’intera popolazione italiana con una connettività di almeno 30 Mbps, partendo dall’attuale copertura di solo il 21% contro una media europea del 64%. Inoltre, si vorrebbe anche coprire l’85% della popolazione con una connettività di almeno 100 Mbps, ben superiore al 50% indicato dall’Agenda digitale europea.
L’investimento previsto è di 12 miliardi di euro, di cui la metà di origine pubblica. Il territorio nazionale è stato diviso in 94.000 sotto-aree omogenee, che verranno aggiudicate per la realizzazione tramite un’asta pubblica e per le quali le prenotazioni da parte degli operatori si sono chiuse il 31 marzo. Il piano prevede diversi livelli e tipologie di intervento pubblico a seconda della situazione di mercato e, quindi, della redditività degli investimenti, elemento determinante per gli investimenti privati. Sono state così individuate quattro classi (cluster) delle quali solo una è appetibile di per sé, costituita dalle città principali con il 15% della popolazione.
È in questo scenario che si sta svolgendo il confronto tra Telecom Italia e i suoi concorrenti, con campo di battaglia Metroweb, la società partecipata dal Fondo strategico della Cassa depositi e prestiti e dal F2i, anch’esso riconducibile alla Cdp, che si presenta come il possibile veicolo per le infrastrutture di banda ultralarga.
La partita è complicata su più fronti, a partire da quello tecnologico: la Cdp propende per la cosiddetta FTTB/H, cioè con la fibra che arriva fino in casa, mentre Telecom è concentrata sul più ridotto FTTB/C, cioè fino all’armadietto stradale, da cui la connessione all’appartamento viene effettuata con il doppino in rame, “l’ultimo miglio”. La prima soluzione, migliore sotto il profilo tecnologico, è ovviamente molto più costosa. Si aggiunge qui il fattore politico relativo alla proprietà della rete e alla necessità di consentire comunque una reale libertà di utilizzo da parte di tutti gli operatori.
Telecom Italia, come ex monopolista, è proprietaria della rete fissa, malgrado le ricorrenti ipotesi di scorporo, ed è tenuta a offrire in affitto la rete agli altri operatori, senza trarre vantaggio dalla sua posizione dominante. Cosa che non sempre succede, come nel 2013, quando l’Antitrust multò Telecom per quasi 104 milioni di euro.
In un primo momento Telecom si è dichiarata non interessata a entrare nell’azionariato di Metroweb, ma durante l’ultimo Cda la decisione è stata capovolta, con la proposta di acquisirne il 51% . Eventualità piuttosto ostica per la Cdp, già a suo tempo coinvolta nell’acquisizione della rete fissa, che ora si troverebbe come socio di minoranza dell’ex monopolista, diventato proprietario anche della banda ultralarga.
In più, verrebbe reso più difficile il finanziamento pubblico date le regole Ue, come segnalato anche dall’Antitrust, che ha portato Telecom, così risulterebbe, a proporre una soluzione in cui una parte delle sue azioni verrebbe temporaneamente “sterilizzata”, così da non avere una posizione dominante in termini di voti rispetto all’azionista pubblico.
Il maggior concorrente di Telecom, Vodafone, è subito corso ai ripari con una lettera di intenti a Metroweb, dichiarandosi disponibile a entrare nell’azionariato senza porre limiti rispetto ad altri azionisti, purché la guida rimanga pubblica. Il presidente della Cdp e di Metroweb, Franco Bassanini, è intervenuto per affermare la preferenza per un veicolo a dirigenza pubblica e che sia aperto a tutti gli operatori interessati, senza posizioni dominanti. Bassanini, nel confermare i colloqui in corso con Vodafone, ha detto di ritenere molto importante la collaborazione con Telecom, ma se l’ex monopolista intende farsi una propria rete, Metroweb continuerà con la sua.
Bassanini ha anche fatto presente, in modo molto netto, come gli investimenti finora stanziati da Telecom, 500 milioni, siano del tutto insufficienti a portare la fibra in 40 grandi città, secondo i progetti del gruppo.
È possibile che si tratti di schermaglie per conquistare posizioni di forza in vista del 31 maggio, data prevista dal piano del governo per la presentazione dei progetti operativi sulle aree prenotate dagli operatori. Ma, come fa rilevare un servizio de Il Sole 24 Ore, rimangono aperti molti aspetti relativi alle modalità dei finanziamenti pubblici e a possibili interventi dell’Unione europea per una loro corretta applicazione e a salvaguardia della concorrenza. A parte gli usuali problemi di copertura.
La posizione “dura” di Telecom si scontra con un paio di fattori critici nella situazione oggettiva della società. Uno è quello indicato da Bassanini, i forti investimenti che la banda ultralarga richiede e che si prospettano non semplici per Telecom, già fortemente indebitata. L’altro è dato dalla fluida composizione dell’azionariato. Come noto, Telco, azionista di maggioranza relativa, è in via di scioglimento e i soci finanziari, Mediobanca, Banca Intesa e Generali, hanno già dichiarato di voler uscire. Il socio industriale, la spagnola Telefonica, verrà sostituito dalla francese Vivendi, a seguito della operazione in Brasile, dove i francesi hanno venduto la propria filiale, Gvt, a Telefonica. Vivendi rimane socio minoritario della nuova società guidata da Telefonica, ma parte del prezzo concordato è la quota degli spagnoli in Telecom.
Sarebbe interessante sapere cosa pensano i francesi della questione banda ultralarga e, soprattutto, cosa ne pensa Vincent Bolloré, presidente e socio forte di Vivendi, oltre che dell’italiana Mediobanca. La domanda non è oziosa, perché Vivendi ha a disposizione una forte liquidità, derivante proprio dalla progressiva uscita dal settore telefonico, che renderebbe possibili i consistenti investimenti richiesti dalla rete in fibra.
Infine, come nota qualche osservatore, non è da dimenticare la presenza in Telecom, con poco più del 2%, della People’s Bank of China, la banca centrale cinese, che ha simili partecipazioni in diverse società quotate, come Eni, Enel, Saipem, Fiat, Generali e Mediobanca. Da tener presente che un’altra società statale cinese, la China State Grid, ha ottenuto proprio da Cdp il 35% di Cdp Reti, con diritto a nominare un amministratore nei Cda di Snam e Terna. Un’entrata dello Stato cinese anche nelle più strategiche reti di comunicazione solleverebbe ancor più gravi problemi di sicurezza per il nostro sistema, economico e non solo. Che ne pensa il governo?