In un precedente articolo evidenziavo la discordanza di opinioni tra gli osservatori di fronte alla ripresa dei prezzi del petrolio: se dovesse essere considerata solo un arresto temporaneo o una vera e propria inversione di tendenza. A giudicare da quanto è successo nella decina di giorni dall’articolo sembrerebbe, condizionale d’obbligo, avere ragione chi sosteneva la fine del drammatico calo dei prezzi. La discussione era peraltro soprattutto sui tempi, perché la maggioranza dei commenti propendeva per una ripresa dei prezzi nel giro di uno o due anni, mentre si è assistito a un aumento di circa il 40% in poche settimane, con il petrolio texano attorno ai 62 dollari e il Brent del Mare del Nord attorno ai 69 dollari per barile.
Alla base, come sempre, un insieme di fattori, sia dal lato dell’offerta che della domanda. Sul primo, la diminuzione delle riserve statunitensi di petrolio (di circa 4 milioni di barili), che si è unita al rallentamento delle forniture dalla Libia e alla caduta nell’apertura di nuovi impianti per la produzione di shale oil. Sul fronte della domanda, i prezzi bassi hanno portato a un aumento dei consumi, per esempio di benzina negli Usa, e le speranze di ripresa dell’economia hanno anch’esse dato un qualche stimolo alla ripresa dei prezzi. Inoltre, il perdurare delle tensioni e dei conflitti in molte aree nevralgiche per la produzione di petrolio stanno spingendo gli investitori a considerare un futuro rialzo dei prezzi più probabile, nonostante le pressioni ribassiste di una parte del mercato.
Mauro Bottarelli ha illustrato nel suo articolo gli scenari politici, finanziari e speculativi che influenzano massicciamente questo mercato, cui vorrei aggiungere qualche considerazione su come vengono stabiliti i prezzi del petrolio.
I benchmark del petrolio, i prezzi guida, sono stabiliti da organizzazioni private, tra le quali la più importante è l’americana Platts, società della McGraw Hill Financial Inc., di cui fa parte anche Standard and Poor’s, e socio di maggioranza nell’indice S&P Dow Jones. Anche senza pensare a particolari derive speculative o peggio, non può non colpire questa concentrazione in un unico gruppo finanziario di indicatori così importanti per l’economia mondiale.
Una perplessità condivisa apparentemente anche dalla Commissione europea che, nel 2013, ha condotto un’inchiesta sulla Platts e su alcune grandi compagnie petrolifere, nella scia dello scandalo della manipolazione del Libor, il tasso interbancario europeo di riferimento. L’obiettivo era di verificare se vi fossero state manipolazioni o accordi sui prezzi, tenendo anche conto della posizione dominante di Platts. L’inchiesta non ha portato ad accuse circostanziate, ma a livello europeo, e non solo, si sta discutendo l’introduzione di controlli pubblici sulla formazione del prezzo di materie prime così rilevanti.
Un altro punto in discussione è se il Brent e il Wti possano essere ancora punti di riferimento, vista la diminuzione che in concreto ha subito la loro quota sul commercio globale del petrolio, rendendo così a priori più “gestibili” questi benchmark, rifiutati per esempio dall’Arabia Saudita. Un ulteriore aspetto, evidenziato in un’analisi di Reuters, è la discrepanza tra questi prezzi e quelli che riescono a spuntare realmente i venditori dagli acquirenti, date le decine di milioni di barili che stentano a trovare compratori.
Per quanto difficile, sarebbe tuttavia molto utile se a livello europeo, o meglio di Eurozona così da eliminare le variazioni di valuta interna, si attuasse una rilevazione dei prezzi effettivi del petrolio venduto nell’area. Anche se ex post, queste rilevazioni servirebbero a rendere anche più attendibili quelle per “finestra” (i prezzi sono fatti su rilevazioni di una mezz’ora in chiusura di giornata) della Platts e delle altre società private.
Divise poi per Stato, fornirebbero una preziosa indicazione sui costi reali degli idrocarburi nei vari Paesi e potrebbero portare a una correzione di almeno una parte delle storture nei prezzi di approvvigionamento e delle loro conseguenze sulle singole economie. Non è da dimenticare che nell’attuale guerra del petrolio, l’Arabia Saudita sta utilizzando anche la diversificazione dei prezzi di vendita per il mantenimento o l’accrescimento delle proprie quote di mercato
È certamente un’impresa non facile, ma non dovrebbe essere impossibile per la massiccia e costosa organizzazione burocratica di Bruxelles.