Chiudendo l’ultimo articolo su Telecom, mi ero augurato che il governo Renzi non assumesse atteggiamenti punitivi verso l’azienda, magari solo per opportunità di partito. La dichiarazione di entusiasmo del presidente di Telecom, Giuseppe Recchi, per “avere finalmente un Governo con una visione del ruolo dell’Ict nel futuro del nostro Paese”, potrebbe essere letta in quest’ottica, anche se poi ha aggiunto che “c’è ancora molta confusione e superficialità”.
In effetti, sembra continuare con il governo una sorta di guerra di posizione, rintracciabile in diverse dichiarazioni attorno all’assemblea tenutasi lo scorso mercoledì. L’uscita positiva nei confronti del governo Renzi sembrerebbe più un’accusa all’assoluta assenza dei precedenti esecutivi che non un riconoscimento all’attuale. Qui il management attuale ha ragione, non solo rispetto alla nostra classe politica, all’origine di buona parte delle debolezze dell’ex monopolista, ma anche verso un azionista di riferimento, la Telco in via di scioglimento, che ha agito soprattutto come freno, nell’indifferenza dei politici.
Sia Recchi che l’ad Marco Patuano hanno insistito moltissimo sul ruolo centrale che Telecom Italia riveste per la banda ultralarga: “Non siamo secondi a nessuno”. Patuano rivendica una diversa gestione del debito rispetto al passato che, nonostante il suo peso, ha consentito di avviare una politica di investimenti, diretta a tre obiettivi principali: la banda larga in Italia, la permanenza in Brasile e gli investimenti nel cosiddetto “fiber to the home”, cioè sulla fibra ottica che arriva fino in casa.
Le ottimistiche e, a tratti, perentorie affermazioni soprattutto di Recchi, un po’ in stile renziano, lasciano comunque emergere i problemi sul campo, a partire dal rapporto con gli altri operatori. Secondo quanto riporta Il Sole 24 Ore, il Decreto Comunicazione in discussione al governo prevedrebbe l’intervento nella posa della fibra ottica di tutte le reti di servizi pubblici, elettrici, gas, trasporti, quindi di Enel, Terna, Eni, Ferrovie, Anas, ecc. Una decisione che sembra logica, in un’ottica di efficienza e risparmio di costi, ma che rischia di mettere in un angolo Telecom.
Il management dell’azienda si è detto disposto a collaborare con Enel e le municipalizzate, in una mossa che sembra suggerire una spartizione di aree. Il piano relativo al “fiber to the home” prevede un investimento in tre anni di 700 milioni di euro, dagli iniziali 500, limitato alle 40 città maggiori, dove l’investimento è redditizio. Più volte il management ha ricordato che Telecom Italia è una società privata che deve remunerare il capitale dei suoi azionisti. Collaborazione, quindi, nelle grandi città e via libera a Enel e Terna altrove, dove per Telecom è più conveniente mantenere il suo modello principale, il cosiddetto “fiber to the cabinet”, cioè la fibra ottica fino alla centralina da cui poi si proseguirebbe con il doppino di rame di cui Telecom ha il monopolio.
La guerra di posizione diventa scontro frontale con il presidente della Cassa depositi e prestiti, Franco Bassanini, per il quale la valutazione della rete fissa in rame sarebbe sopravalutata, affermazione per la quale Telecom ha presentato un esposto alla Consob per turbativa di mercato. In un passato non molto lontano, la rete fissa doveva passare sotto la gestione di Cdp, per permettere agli altri operatori un accesso non condizionato da un loro concorrente. In seguito, Telecom ha deciso di bloccare lo scorporo, per mantenere il pieno controllo della rete, patrimonio decisivo per la sua posizione dominante in Italia.
La richiesta di Telecom di assumere il controllo della società sembra la causa anche dell’interruzione dei colloqui per una collaborazione con Metroweb, controllata della Cdp, che punta, come presumibilmente il governo, a un’entità partecipata da tutti gli operatori del settore, situazione non gradita a Telecom.
Il dibattito sulla banda ultralarga rimane quindi aperto e la sensazione è che Telecom cerchi di portare a casa il massimo risultato possibile, cosciente dell’impossibilità di mantenere le attuali posizioni. La stessa impressione si ricava dalle dichiarazioni sul Brasile: da un lato si afferma la volontà di restare in quell’importante Paese “da protagonisti”, ma dall’altro si riconosce la necessità nel medio termine di raggiungere accordi con altri operatori locali.
Il management del gruppo si è finora mosso, giustamente dal suo punto di vista, come gestore di una public company, “un punto di orgoglio, per tutti noi”, dice Recchi, ma questa assemblea si è svolta in un limbo, tra una Telco che va e una Vivendi che arriva. Il presidente ha dichiarato che ogni investitore, non importa la sua nazionalità, è benvenuto, ma anche Recchi sa benissimo che Vincent Bolloré non è uno che si limita a fare il cassettista e che non è probabile apprezzi il concetto di public company per le società in cui investe.
Da questa angolazione va forse interpretata la descrizione di Telecom fatta da Marco Patuano: “Piattaforma aperta di distribuzione di contenuti che integrerà le migliori offerte disponibili sul mercato”, così da in futuro “soddisfare in misura crescente un bisogno unico di tipo convergente”. Si tratta di una strategia che Telecom Italia sta già portando avanti, ma che non dispiacerà certamente a Vivendi, suo nuovo azionista più importante.