Sarà forse effetto della prossima enciclica sull’ambiente o, forse più probabilmente, della conferenza internazionale sul clima convocata per il prossimo dicembre a Parigi, ma le società petrolifere europee sono diventate improvvisamente ambientaliste. In una recente lettera al Financial Times, sei società europee, tra cui Shell, BP e la nostra Eni, hanno comunicato l’intenzione di condurre un’azione comune per combattere i cambiamenti climatici e chiesto l’introduzione di un sistema di tariffazione globale sulle emissioni di anidride carbonica.



Questa iniziativa, alla quale non si sono unite le compagnie americane, è una conferma delle difficoltà in cui versa l’industria petrolifera, stretta tra le sempre più forti pressioni per una maggiore sicurezza ambientale e il livello ancora insufficiente dei prezzi del petrolio. Alla base della lettera vi sono le pressioni di associazioni ecologiste, particolarmente sui fondi pensionistici, per indirizzare gli investimenti verso settori ritenuti meno dannosi per il clima, con il rischio di penalizzare le azioni petrolifere in Borsa. All’interno dello stesso azionariato delle società vi è chi chiede un taglio degli investimenti e una maggior distribuzione di dividendi, o uno spostamento verso la cosiddetta energia verde, cosa già in parte fatta da alcune società, peraltro senza grande successo.

La ricerca di nuove riserve di petrolio e il loro sfruttamento richiede diversi anni e vi è il timore che questi notevoli investimenti possano andare persi di fronte a nuove e più generalizzate restrizioni di tipo ecologico. Per evitare questo rischio, le compagnie hanno deciso di farsi parte attiva nel controllo delle emissioni, suggerendo anche un maggior ricorso al gas naturale, molto meno inquinante del carbone, che diventerebbe il carburante fossile da emarginare. È probabilmente questa l’ottica alla base delle condizioni piuttosto favorevoli proposte dalla Shell per l’acquisto della British Gas.

Le difficoltà poste già ora sotto questo profilo dalle opinioni pubbliche e dalle autorità di diversi Stati, i pesanti rimborsi per i danni causati in precedenti disastri come quello del Golfo del Messico e il perdurare delle basse quotazioni di mercato hanno già portato a una riduzione degli investimenti, con conseguente perdita di posti di lavoro. Nel frattempo sono stati anche messi fuori produzione diversi giacimenti vecchi o non più remunerativi con questi prezzi e sospeso lo sfruttamento di nuovi pozzi. È questa, per esempio, la situazione di sempre più larga parte dell’industria del petrolio di scisto negli Stati Uniti e in Canada, con riflessi negativi per intere regioni di questi Paesi. 

La “guerra del petrolio” iniziata dall’Arabia Saudita sembra quindi aver avuto successo e sembra anche destinata a continuare, visto che di fronte ai recenti rialzi nei prezzi i sauditi hanno ulteriormente aumentato la loro produzione e hanno aperto un altro fronte, dichiarando l’intenzione, insieme ad altri Paesi del Golfo, di diventare leader anche nell’energia verde.

È peraltro improbabile, prima di qualche decennio, la completa sostituzione dei combustibili fossili con altri fonti di energia, tenendo conto che il maggior concorrente, il nucleare, è anch’esso sotto deciso scacco. Queste dichiarazioni sembrano perciò parte della guerra in corso per la conquista di quote di mercato e propedeutiche alla riunione dell’Opec di oggi.

Tra gli osservatori è diffusa l’opinione che l’Arabia Saudita riuscirà a imporre la continuazione della sua strategia, malgrado l’opposizione di Iran, Venezuela e altri Stati latino-americani e africani. La produzione saudita vale un terzo del totale Opec e, insieme alle grandi risorse finanziarie, dà all’Arabia un indubitabile forza di contrattazione. Il rischio è che l’Opec diventi teatro non solo dei contrasti sulla politica dei prezzi del petrolio, ma del confronto ben più grave in atto tra Arabia e Iran sulla scena mediorientale. 

Bloomberg ha pubblicato un’interessante analisi sui prezzi minimi del petrolio necessari ai bilanci dei vari membri dell’Opec, calcolati dal Fondo monetario internazionale. Su dodici, solo due Paesi, Qatar e Kuwait, hanno livelli inferiori agli attuali prezzi, e altri due, Iraq ed Emirati, di poco superiori; tutti gli altri, compresi Arabia e Iran, necessiterebbero di un prezzo di almeno 100 dollari al barile, che causerebbe comunque ancora qualche difficoltà a Venezuela, Ecuador, Nigeria e Algeria.

In questo panorama risulta per l’Italia molto interessante la proposta fatta dal premier algerino in un recente incontro con Matteo Renzi di riprendere il progetto Galsi, cioè il gasdotto che doveva portare il gas algerino in Sardegna e da qui in Italia. Il progetto è bloccato da diversi anni per varie ragioni ed è ostacolato dagli ambientalisti, ma potrebbe riprendere quota a seguito delle tensioni con la Russia, del cui gas quello algerino potrebbe diventare un parziale sostituto.

L’Algeria sembra molto pronta a ripartire, ma l’Italia è apparsa molto meno “calda”sul progetto e sarebbe interessante capire il perché.