Delle molte cose che non funzionano in Italia si accusano i governi e chi li presiede, il che è di per sé ovvio; meno ovvio è che non venga criticata con la stessa intensità un’altra istituzione fondamentale per il Paese, cioè il Parlamento. Eppure, il Parlamento e i suoi componenti hanno fortissime responsabilità per la situazione in cui si trova l’Italia, mentre potrebbero contribuire significativamente alla ripresa del Paese.

L’elenco delle occasioni mancate è lungo. Per il suo valore simbolico, inizio da quella specie di farsa che è stata la commissione Giovannini costituita dal governo Berlusconi nel 2011. La commissione doveva, tra l’altro, confrontare gli emolumenti dei nostri parlamentari con quelli degli altri Paesi, ma dopo qualche mese rinunciò al mandato dichiarando l’impossibilità di portare a compimento l’incarico. Una questione che il Parlamento ha lasciato cadere ancora una volta nell’oblio, malgrado la sua significatività in un periodo in cui lo stesso Parlamento e il governo chiedono forti sacrifici ai cittadini.

Il nostro Stato ha un numero di leggi enormemente superiore a quello dei maggiori Stati europei, che danno luogo a un coacervo di disposizioni in parte obsolete, in parte sovrapposte o addirittura contraddittorie. Inoltre, le nostre leggi sono scritte in un gergo comprensibile solo a pochi iniziati, causando problemi di interpretazione e incertezze in chi le deve applicare e in chi le deve rispettare, per non parlare dei costi che il tutto comporta.

L’iter di approvazione è reso complesso e opaco non solo dal bicameralismo perfetto, ora apparentemente in via di modificazione, ma dall’abitudine di rinviare le questioni rimaste aperte alla discussione in aula attraverso gli emendamenti. Il loro uso ricorda spesso il filibustering americano e il problema viene spesso risolto con un maxi emendamento; il tutto finisce per complicare e rendere meno trasparente anche il processo di approvazione e lo stesso testo finale del provvedimento.

Anche dopo l’approvazione le leggi hanno vita difficile, perché vi è l’ulteriore passaggio dei decreti attuativi da parte del governo, spesso emanati in ritardo, e che possono di fatto apportare modifiche alla legge il più delle volte al di fuori del controllo del Parlamento.

La vittima principale di questa situazione è la certezza del diritto e la mancanza di questa certezza, oltre che rendere la vita difficile a cittadini e imprese italiane, è un forte ostacolo a chi vuole investire dall’estero in Italia.

Un problema fondamentale per l’Italia è la riduzione della spesa pubblica e, non a caso, ogni tanto viene dato incarico a esperti di suggerire proposte per ridurla. L’ultima spending review è stata condotta sotto la guida di Carlo Cottarelli, ma le relazioni sono rimaste bloccate per diversi mesi nei cassetti del governo. Il Parlamento non poteva almeno esercitare una moral suasion sul governo perché venissero pubblicate e discusse al più presto? Se non altro per verificare se il loro contenuto portava a revisioni di legge esistenti o all’individuazione di buchi legislativi. Già, perché accanto a un numero abnorme di leggi manteniamo comunque vuoti legislativi.

Nel rapporto Cottarelli si parla anche dell’introduzione di costi standard per gli acquisti effettuati dalle amministrazioni pubbliche. L’identificazione di fabbisogni e costi standard è un punto principale anche della legge delega del 2009 sul federalismo fiscale che, a parte commissioni e documenti, non pare aver ancora prodotto molti effetti sulla gestione pubblica. Ancora una volta, la responsabilità dell’attuazione è del governo, ma la responsabilità del Parlamento si è esaurita con l’approvazione della legge di delega?

Difficile sottrarsi all’impressione che ai nostri parlamentari interessi solo licenziare un testo di legge, si è già visto con quali problemi, per poi disinteressarsi di ciò che succede dopo. Ancora un esempio. In un recente articolo suqueste pagine, Gianfranco D’Atri ha portato alla ribalta il gravissimo problema dei derivati sul debito pubblico italiano, che minacciano i nostri conti per decine di miliardi. D’Atri denuncia giustamente i silenzi del governo, ma il Parlamento, che ha ascoltato in commissione l’alto funzionario competente ma con risultati tutt’altro che soddisfacenti, non ha niente da dire? Perché non chiede formalmente al governo tutti i dati in proposito, magari istituendo una commissione di inchiesta? Se davvero la questione esplodesse, le conseguenze per le nostre timide speranze di ripresa economica sarebbero disastrose.

Il Parlamento, impegnato nelle partitocratiche e “individuocratiche” liti interne, sembra rassegnato a una progressiva ininfluenza, schiacciato tra burocrazia, governo e magistratura. Non c’è da meravigliarsi della sempre maggiore disaffezione degli italiani per le urne e non si evochi ipocritamente l’antipolitica, perché questa richiede che una politica ci sia.