Dopo i recenti ulteriori cali del prezzo del petrolio, le attese sono ormai per prezzi bassi almeno fino a 2016 inoltrato, dato anche il rallentamento dell’economia cinese. Per fronteggiare il conseguente peggioramento dei conti, le società petrolifere stanno attuando pesanti strategie di contenimento dei costi attraverso riduzioni di personale, come ci si poteva attendere, e ricerca di maggiore efficienza.

Per molti luoghi di estrazione il costo sta diventando fortemente superiore agli attuali prezzi del prodotto estratto e rimangono in funzione solo perché, per il momento, la loro chiusura sarebbe ancor più onerosa per le società. L’attuale crisi sta portando, tuttavia, a una continua diminuzione degli investimenti in ricerca e apertura di nuovi pozzi e si stima che siano già stati tagliati, o ritardati, investimenti per almeno 200 miliardi di dollari.

Questi tagli agli investimenti mettono in grave difficoltà un altro settore, il cosiddetto oil service, cioè le società che si occupano di tutte le attività che vanno dall’esplorazione, al trasporto, alla conservazione dei prodotti petroliferi. Anche queste società stanno attuando strategie di riduzione di costi e di aumento dell’efficienza, cui si aggiungono operazioni di fusione per razionalizzare le strutture e ampliare la gamma di prodotti e servizi offerti.

A questo settore appartiene Saipem, il cui titolo è improvvisamente rimbalzato in Borsa proprio sulla notizia della proposta di fusione tra la più grande industria del settore, Schlumberger, sede a Houston e Parigi, 108.000 dipendenti, fatturato di circa 49 miliardi di dollari, e Cameron International, sede a Houston, 24.000 dipendenti, più di 10 miliardi di dollari di fatturato.

Schlumberger ha offerto più del 50% rispetto alla quotazione in Borsa di Cameron, che alla notizia è infatti schizzata in alto di più del 40%. La fusione, che deve essere sottoposta agli azionisti e alle autorità competenti, dovrebbe portare nel giro di due anni a un risparmio di circa 900 milioni di dollari. Ciò che viene particolarmente sottolineata è però l’integrazione di prodotti e servizi complementari che permettono di offrire una linea completa alle società petrolifere, migliorando costi ed efficienza dei loro investimenti. 

Questa mossa è anche una risposta alla precedente megafusione (35 miliardi di dollari) tra le numero 2 e 3 del settore, le americane Halliburton e Baker Hughes, rispettivamente 70.000 e 53.000 dipendenti, circa 33 e 25 miliardi di dollari di fatturato. Se le due procedure di fusione arriveranno in porto daranno vita a due colossi con circa 120/130 mila dipendenti ciascuno e ciascuno con un fatturato di quasi 60 miliardi di dollari.

Saipem nel 2014 ha registrato un fatturato di circa 13 miliardi di euro (quasi 15 miliardi di dollari), con circa 50.000 dipendenti, dati che indicano una dimensione limitata che potrebbe essere insufficiente per competere da sola in un settore così combattivo, malgrado la sua indiscussa eccellenza tecnologica. Il nuovo amministratore delegato, Stefano Cao, sta preparando un nuovo piano industriale che, accanto a un taglio di 8800 dipendenti a livello globale, dovrebbe prevedere una razionalizzazione delle aree di intervento. 

Un problema per Saipem, in rosso per circa 900 milioni nel primo semestre 2015, è dato dal forte indebitamento, che ha superato i 4 miliardi di euro, per il 90% finanziati dalla controllante Eni. Tenendo conto di questo dato, alcune stime portano il possibile prezzo di acquisto di Saipem attorno ai 15 miliardi di euro. 

Come dimostrano i casi già citati, peraltro, il valore di queste vendite o fusioni non è determinato solo dalle componenti finanziarie, ma, e forse più, da fattori strategici, dove Saipem credo abbia buone carte da giocare. In questo senso, una riprova è data dalla recentissima acquisizione di contratti per 1,3 miliardi di dollari nella costruzione di una grande raffineria in Kuwait.

Sono quindi ripartite le ipotesi sui possibili partner/compratori di Saipem, che vanno dalla fusione con altre società europee, come la francese Technip o la norvegese Subsea7, all’acquisto da parte degli ormai immancabili cinesi e russi. La citazione dei primi è praticamente inevitabile, vista la presenza nell’azionariato di Saipem ed Eni della People’s Bank of China, la banca centrale cinese.

Più problematica parrebbe l’entrata dei russi, per la questione delle sanzioni contro Mosca, ma Rosneft, società russa controllata dallo Stato, è già socia della Saras, società petrolifera controllata dalla famiglia Moratti. Inoltre, sarebbe strano che solo in Italia valesse l’embargo contro la Russia, visto che la britannica BP è recentemente entrata nell’azionariato di Rosneft e che la anglo-olandese Shell, insieme ad austriaci e tedeschi, partecipa in prima fila con Gazprom al raddoppio del Nord Stream che porta il gas russo in Germania.